STORIE, IMMAGINI, METAFORE IN PSICOTERAPIA

INTRODUZIONE

Tutti hanno una storia da raccontare, una grande metafora che accompagna le nostre mattine e le nostre sere e cerchiamo qualcuno che possa ascoltare, possa darci una chiave per interpretare e cambiare le parti che interrompono quella storia.

Forse ricordi che un tempo la notte, prima di addormentarti, sentivi il bisogno che una voce calma e melodiosa ti raccontasse una storia che ispirasse i tuoi sogni, calmasse le tue paure ed evocasse la tua forza. E tutte le notti come un rituale magico la voce di una favola portava i tuoi occhi a chiudersi dolcemente e senza accorgertene sprofondavi tra le braccia di Morfeo.

Le immagini della storia parlavano alla tua mente che vedeva tutto ciò che veniva raccontato, ma le orecchie del tuo inconscio erano ben più aperte e carpivano tutto ciò che sarebbe stato utile per la tua crescita.

Anche se la tua mente conscia ha smesso di credere nella magia, il tuo inconscio non lo può fare, perché è proprio con la magia, i simboli, gli archetipi che questi comunica.

Nel prendersi cura di un altro, nel nostro caso un paziente, pensiamo a quanto possa essere utile raccontare una storia. Una storia nutre il nostro bambino interiore che soffre, ci riporta in una dimensione passata dove ogni mostro era sconfitto da un eroe, ci riporta in contatto con la nostra parte emotiva, spesso protetta dalla nostra razionalità. Nell’ascoltare una favola ritroviamo per qualche minuto il nostro bambino ferito, che può essere ora riconfortato e accudito.

Se guardiamo la storia del mondo ci accorgiamo come anche i più grandi insegnamenti siano passati attraverso storie, parabole, favole, miti. Il messaggio magico di una storia raccontata arriva da sola a toccare le parti che sanno ascoltare.

Spesso il nostro inconscio profondo recepisce o si nutre di un solo frammento della storia, che è il frammento di cui ha bisogno, poi più in là altri elementi della stessa storia possono diventare importanti.

Quando raccontiamo una storia ad un gruppo di persone, vediamo che ognuno dei presenti viene colpito da un punto particolare della storia e questo ci mette in contatto con l’intimità di quella persona stessa, perché ciò che ha fatto breccia nel suo cuore racconta quello che la sua anima vuole esprimere.

Chi ascolta una storia o una metafora o una fiaba, spesso la sta vivendo e nel viverla ne vive anche gli sviluppi e la forza che il messaggio, a cui la sua anima è sensibile, porta con sé.

Purtroppo in questo periodo storico più volte è la televisione, uno strumento senza anima, che racconta le favole ai bambini. La televisione ha un grande potere ipnoide nel bambino, lo rende passivo e svogliato, inibisce il processo creativo e invade la mente di immagini precostituite che non fanno altro che accrescere la confusione. Certo alcuni programmi hanno anche una loro utilità e possono essere definiti positivi, ma troppo spesso la televisione diventa un oggetto transizionale che sostituisce le figure di attaccamento e un caldo abbraccio. Nonostante tutto questo però il bambino continua a chiedere che gli si racconti una favola, la sua parte saggia continua a sapere ciò di cui la sua anima ha bisogno.

Ho notato spesso che nel raccontare una storia o una semplice metafora a un paziente, accresce molto il livello di attenzione, di ascolto e di intuizione; si percepisce come un solenne silenzio che può essere riempito solo da parole importanti. È proprio nel dire all’altro “ti racconto una cosa” che l’attenzione cresce e l’altro sa che quel che verrà detto sarà importante per lui, indipendentemente da ciò che diremo, perché il Sé del paziente si è già messo in moto per carpire ciò di cui il paziente stesso ha bisogno. Noi terapeuti non potremo mai sapere qual è la storia più giusta per un paziente, salvo in momenti dove la nostra intuizione è al massimo, ma dobbiamo aver la fiducia che l’altro saprà rielaborare ciò che diremo nel modo a lui più congeniale, perchè spesso è più terapeutico il modo in cui diciamo una cosa piuttosto di che cosa diciamo.

L’intento di questo articolo è quello di elaborare, attraverso il supporto di alcuni casi clinici, un possibile modo di lavorare con storie o metafore durante un percorso psicoterapeutico.

RACCONTARE

Come sappiamo sia il male che la cura a questo male risiedono nella persona stessa. Le nostre parole funzionano solo se fanno da eco a un mormorio interno del nostro paziente che viene risvegliato e portato alla coscienza. Se non tocchiamo le corde giuste il seme curativo rimarrà chiuso sotto terra e non germoglierà, viceversa risvegliare questo seme equivale a far partire un processo di crescita.

Nel raccontare qualcosa al nostro paziente già soddisfiamo un suo bisogno molto importante, ovvero quello di essere visto, di essere speciale, di essere importante. Molte persone entrano nei nostri studi pieni di paure, sensi di colpa e con l’incombente pensiero di essere un peso per gli altri. Molti si sentiranno vittime del mondo, soli, non amati, alla ricerca di qualcuno che possa capirli e farli credere che anche loro sono amabili. E nel nostro raccontare ci può essere l’intento di prendersi cura dell’altro, farlo sentire speciale ed amabile. Mi piace pensare che nella vita di tutti ci sia stata almeno una persona che abbia dedicato un po’ del suo prezioso tempo per stare con noi, ma se ciò non fosse potremmo essere noi terapeuti i primi a farlo.

Il paziente ci porta spesso la sua parte fragile, sofferente, bambina, quella che ha smesso di camminare, si è fermata, è regredita. Sembra talvolta di avere davanti un bambino che con occhi bisognosi agogna a un briciolo di speranza e di conforto, e in quel momento è proprio il bambino che dev’essere preso per mano e aiutato ad uscire dalla fossa in cui è caduto, in attesa che la sua parte adulta possa in qualche modo sostituire la nostra mano.

Quando racconti entri nel regno della magia dove i confini non esistono più, le parole diventano immagini, le immagini diventano curiosità e la curiosità trasforma il mondo inconscio di chi ascolta. La parola curioso deriva dal latino (curiosus) e significa prendersi cura di qualcosa. La curiosità può avere un notevole potere terapeutico, sia nell’essere noi terapeuti curiosi di qualunque nostro paziente, sia nel far ridestare nell’altro il suo essere curioso, perché nel momento in cui c’è curiosità difficilmente avremo paura o saremo preda del bambino bisognoso, ma sarà più facile evocare l’eroe o la purezza del bambino amato. La curiosità porta spesso alla capacità di meravigliarsi e se ci incuriosiamo dei nostri pazienti lasceremo aperta la porta della magica trasformazione dell’altro e daremo lo spazio necessario al suo Sé di esprimersi. Allo stesso tempo un paziente curioso si predispone alla possibilità di trasformarsi.

Per creare curiosità nell’altro dovremmo trovare il momento più adatto per raccontare. Potremmo cominciare la nostra storia con frasi del tipo: “Vorrei raccontarti una storia”, oppure “mi hai fatto venire in mente una storia” e in molti altri modi così da creare una certa attesa che predispone l’altro a recepire in profondità il nostro messaggio.

Ho notato che alcuni pazienti spesso mi riportano immagini o storie che si erano create durante le sedute piuttosto che frasi concrete riguardo al problema trattato. Le storie che possiamo raccontare possono essere anche aneddoti riguardanti la vita reale come ad esempio il ricordo della prima volta in cui uno è salito su una bicicletta, o il primo giorno di scuola. Se queste esperienze vengono raccontate con un senso e una certa solennità, assumono una grande valenza per il paziente. Se ad esempio una persona si sente di non essere in grado di raggiungere un obiettivo, perché insicuro, riportargli alla mente situazioni in cui sicuramente ha avuto successo significa ricreargli un ponte di collegamento tra il suo essere capace e la situazione attuale.

L’uso di parole semplici, ricercate e che evocano immagini concrete, arrivano più in profondità rispetto ad immagini astratte. L’immagine concreta racchiude in sé una miriade di significati che attraverso il suo essere simbolo portano interezza nella frammentata realtà di chi ascolta, permettendo di creare facilmente associazioni mentali che evocano ricordi, riflessioni, possibilità.

Spesso nell’ascoltare una storia le nostre funzioni psichiche si attivano, rendendo più recettive le nostre attitudini trasformative. Questo avviene soprattutto se viene colta un’immagine che in qualche modo appartiene a chi ascolta.

A una ragazza di 15 anni con una fobia scolare che le impediva di andare a scuola da mesi e poteva comprometterle l’anno scolastico, nonostante il buon rendimento, le raccontai una breve storia molto semplice: “la storia della tua paura mi ricorda un racconto di un trasportatore di pietre del ‘400. Era un ragazzo molto giovane e ancora un po’ gracilino e nessuno della sua età avrebbe mai potuto fare il lavoro di trasportatore di pietre, ma quello era il suo sogno e voleva realizzarlo. Tutti i giorni si recava alla cava e gli scavatori gli caricavano la schiena di pietre. Le prime volte era durissima arrivare fino al punto dove doveva depositare il materiale, sentiva un punto preciso della schiena che doleva intensamente. In quel punto si formò ben presto una ferita. Sembrava impossibile per il ragazzo tornare a lavorare il giorno dopo, ma il capo dei trasportatori gli disse di andare lo stesso al lavoro, perché quello poteva essere il momento più importante. Perseverando nel suo lavoro si sarebbero prima o poi formati dei calli nella sua schiena e non avrebbe così sentito più dolore. Il ragazzo continuò tutti i giorni a trasportare e per alcuni giorni il dolore alla schiena era quasi insopportabile, ma ben presto si formò il callo e il dolore venne dimenticato per sempre.”

In questo caso era già stato fatto un lavoro analitico importante ed erano stati trovati i punti significativi che avevano causato il disagio, ma questo spesso non basta. La storia proposta ha avuto un ottimo effetto proprio perché si sono attivate varie funzioni psichiche come il desiderio del trasportatore di pietre correlato al desiderio di tornare a scuola, la sensazione di un leggero dolorino che la stessa paziente sentiva nella schiena in un punto immaginario che avevamo identificato come quello dove si sarebbe formato il callo, l’emozione dell’ansia che poteva trasformarsi in fiducia, l’immagine del protagonista della storia e l’identificazione con esso, l’intuizione che anche lei avrebbe potuto farcela e infine il pensiero che perseverando avrebbe potuto dimenticare la sua ansia, e spesso il dimenticare il male che affligge è il modo più certo di capire di averlo superato.

Tornando a questo caso, in quel periodo, visto che c’era la forte volontà di tornare a scuola e il tempo a nostra disposizione era poco per l’incombente fine dell’anno e la altrimenti inevitabile bocciatura, vedevo questa ragazza tre volte a settimana. Tutte le volte che ci vedevamo, intanto con grande ansia era rientrata a scuola, le chiedevo a che punto era il callo e lei indicandomi il punto mi diceva il grado di dolore della ferita che inizialmente era quasi insopportabile. Nella seconda settimana cominciò a diminuire e nella terza il callo formato permise all’ansia di essere dimenticata. Quella che poi chiamammo la profezia del trasportatore di pietre si era avverata. Le famose profezie che si autoavverano generalmente ce le creiamo a nostro svantaggio. Sono spesso molto concrete dettate dalle nostre insicurezze e paure che spesso sono molto più forti di qualsiasi altra emozione. Sarebbe molto difficile inserire una profezia diversa, e quindi spesso è necessario bypassare la nostra paura attraverso delle immagini, delle storie, dei miti che sono molto più sopportabili visto che direttamente non parlano di noi e non ci richiedono di agire nell’immediato, non ci obbligano a diventare ciò che ancora non siamo. Con una storia, una favola, un mito, la nostra parte conscia può fare associazioni di ogni genere, può apparentemente non comprenderne il significato, mentre la nostra parte inconscia può cominciare a muoversi verso la direzione migliore per noi. Tornando al caso, non c’è stato un riferimento preciso al dover andare a scuola, che avrebbe potuto addirittura aumentare l’ansia, ma il desiderio del trasportatore ha riacceso il desiderio della ragazza di affrontare la sua paura e anche la sua voglia di tornare a vivere “in modo normale” (come mi ripeteva sempre). Tra l’altro il giorno stesso che raccontai la storia dissi anche a questa ragazza che io non volevo assolutamente che tornasse a scuola e che non avremmo più parlato di quell’argomento. Questo stemperò molto l’ansia e portò a riconoscere che il desiderio di tornare a scuola non era mio bensì suo.

TUTTI HANNO UNA STORIA

Ogni persona che incontriamo ha una storia da raccontare, una storia che puntualmente e inesorabilmente si ripete all’infinito in una estenuante coazione. Sembra che il tempo non segua una linea retta in cui al passato segua il presente e al presente il futuro, ma tenda più a muoversi in senso circolare. La storia si svolge attorno ad un’abitudine, un’idea, una credenza, e se non ne scorgiamo la trama, continuerà a ripetersi all’infinito, anche se cambieranno i protagonisti, i paesaggi e i periodi storici, perché la penna di chi scrive sarà intrisa dello stesso magico inchiostro che segue i dettami del conosciuto.

Talvolta succede addirittura che la storia che vive un figlio, sia il proseguo o la ripetizione della storia dei suoi genitori o dei suoi avi. Da qui l’importanza di identificare nella storia personale ciò che appartiene realmente a chi la “scrive” e ciò che appartiene ad altri.

Fino a quando non avremo padronanza della nostra storia essa ci dominerà e ne saremo vittime. Riscrivere il copione sarà aprirci a nuove e ben più colorate possibilità.

Immersi nelle nostre storie vediamo spesso solo una strada, ma la terapia ci può portare ad allargare la nostra visuale e scorgere che ci sono altre possibilità, come un libro che si apre a svariati finali e noi possiamo scegliere quello che più ci piace.

Durante una seduta anche il semplice racconto di un episodio accaduto durante la settimana può ricondurci alla trama dell’intero libro che narra la storia del paziente, come una sorta di ologramma in cui ogni sua parte sta per il tutto. Un episodio raccontato, seppur piccolo, si porta dietro la storia di chi racconta, si porta le credenze, le abitudini, il modo di vivere le cose sempre uguale a se stesse. Cambiando la trama del piccolo episodio potrebbe accadere che l’intero libro della nostra vita possa cambiare.

Una donna di cinquant’anni, Chiara, con disturbo dell’umore associato a disturbo ossessivo, mi racconta che durante la settimana il suo superiore a lavoro si rivolge a lei in modo disprezzante perché lei gli aveva chiesto un chiarimento su una pratica che doveva svolgere. Rimane in silenzio senza poter reagire, immobile, con un forte senso di umiliazione e vergogna. Si sente calpestata, ma allo stesso tempo colpevole per non essere stata in grado di svolgere il compito senza chiedere chiarimenti.

Apparentemente è una trama abbastanza lineare e capita spesso che ci siano screzi tra colleghi di lavoro. La frase più importante arriva dopo, quando questa donna mi dice che è sempre così, si trova in queste situazioni e rimane sempre impietrita e con questi sensi di colpa. Ecco allora che la storia diventa una trama che si ripete, si annida in essa un bisogno di cambiare, c’è la richiesta di trovare un nuovo finale più soddisfacente.

Anche in questo caso l’intervento è stato accompagnato da una buona parte di analisi durante la seduta.

Una volta che la donna ha espresso il suo stato d’animo e gli elementi che si ripetevano spesso nella sua vita e nei quali si sentiva profondamente identificata, abbiamo provato a ricercare un nuovo finale e uno stato d’animo più idoneo alla situazione, rivivendo l’accaduto ad occhi chiusi. Chiara si è accorta subito che lei già prima di chiedere aiuto al suo capo sapeva già come sarebbe finita, dava già a lui il potere di umiliarla. Il finale era già scritto, era l’unico epilogo che conosceva. Guardando bene la storia, si è accorta che non era lei ad aver sbagliato, ma il suo superiore aveva utilizzato dei termini eccessivi. Durante la visualizzazione si è sentita più forte, sentiva emergere nuove possibilità, soprattutto quella che non sempre era lei a sbagliare. Nella sua visualizzazione riusciva a rispondere al suo capo e sentiva che le sue critiche non la toccavano, visto che lei non aveva fatto niente di sbagliato.

La situazione immaginata poi ha avuto la sua attualizzazione nella vita reale, tanto che già la settimana dopo mi ha raccontato di essere riuscita a rispondere a tono al suo superiore e soprattutto che non si è più sentita succube di lui. Questo è avvenuto perché ogni immagine “ha in sé un elemento motore che tende a tradursi in azione” ( Assagioli, 1973). Questo piccolo episodio di vita quotidiana avrà poi sicuramente una ripercussione positiva su altri episodi simili, perché ora in certe situazioni è stato visto che non c’è un unico finale.

NON TUTTE LE STORIE LE ABBIAMO SCRITTE NOI

Molte mani scrivono la storia della nostra vita, mani che non siamo in grado di distinguere dalle nostre e spesso ci sembra che le frasi scritte sul nostro libro siano quelle che abbiamo creato, voluto, scritto noi. Non è così, perché se guardiamo attentamente le pagine vediamo che vi sono diversi tipi di calligrafia, diversi tipi di inchiostro che si imprimono con forza nelle righe. Qual è allora tra tutte la nostra scrittura, ciò che realmente abbiamo scritto noi in accordo con il nostro Sé? Un grafologo potrebbe aiutarci a distinguere la nostra calligrafia dalle altre, una Psicoterapia potrebbe aiutarci a ritrovare i punti salienti e realmente nostri del libro. La Psicosintesi parla di Analisi frazionata, ovvero un’esplorazione dell’inconscio fatta a “rate” (Assagioli, 1973), in cui una parte della seduta viene dedicata all’analisi dell’inconscio, mentre nell’altra vengono utilizzate tecniche che riguardano la personalità cosciente. La parte dell’analisi è quella del grafologo che suddivide i vari tipi di grafia e cerca di distinguerli l’uno dall’altro, l’altra parte è quella che permette alla nostra penna di scrivere nuove pagine sul nostro libro. Distinguendo sempre più la nostra mano dalle altre, il nostro libro diverrà sempre più originalmente nostro.

Tutti i terapeuti rischiano di cadere in un errore, ovvero nel proprio bisogno di interpretare. Interpretare è scrivere sul libro dell’altro le nostre frasi, o quelle di Freud o Jung, ma non è aiutare l’altro a trovare il suo modo di scrivere. Per la psicanalisi classica ogni storia è interpretabile in un unico modo; la storia viene scritta dagli 1 ai 6 anni di vita, poi tutto ruota in circolo in una eterna ripetizione da cui è difficile uscire.

Sarebbe forse più corretto “leggere” insieme al paziente ciò che ha scritto, aiutarlo a capire se ciò che emerge è realmente roba sua o di altri, rimboccarsi le maniche e cominciare con pazienza a vegliare le nuove pagine che verranno scritte, sostenendo i successi e non dando particolare importanza alle sconfitte o alle regressioni, nonostante per molto tempo continueranno a scrivere altre persone oltre al paziente, ma sarà sempre più facile distinguere la grafia di queste ultime dalla lineare scrittura del padrone del libro.

Nell’ottica di un terapeuta sarebbe molto importante riuscire a capire durante la seduta chi sta parlando, se il soggetto che abbiamo difronte o i vari fantasmi che sbucano dalle profondità dell’inconscio per mettere in atto il loro copione. Molte persone non sanno ciò che vogliono anche per queste spiacevoli intromissioni di volontà non proprie; così finiamo per assomigliare al sogno e alle volontà di altri, persone che non sono riuscite in qualcosa, ma che attraverso di noi sperano di realizzare il loro sogno. Potremmo addirittura ipotizzare che possano su di noi influire i nostri antenati mai conosciuti, attraverso la trasmissione di paure, ansie e bisogni che non ci appartengono, ma appartengono alla storia della famiglia.

Quest’ultimo punto è difficilmente verificabile, anche perché dei nostri avi spesso conosciamo pochissimi frammenti di vita.

L’immaginazione ha un grande potere trasformativo e ciò che accade a quel livello ha sempre un collegamento con la realtà. Con particolari persone mi è capitato di cercare di ricreare a livello immaginativo situazioni di vita attuali ambientate in epoche passate. Ho chiesto di visualizzarsi in un’epoca dove loro si riconoscevano di più, guardarsi intorno, capire chi sono, il loro ruolo, chi potevano essere i loro genitori reali e i parenti in genere, gli amici e chi comparisse durante la visualizzazione. Ho notato che spesso emergono racconti e storie molto interessanti, temi e dinamiche profonde, rapporti che si chiariscono più facilmente nell’epoca passata piuttosto che in quella attuale. Il paziente sa che si parla di lui, ma sa anche che può osservarsi dall’alto senza particolare giudizio, sia mio che suo, può esserci e non esserci. Spesso le resistenze sono scavalcate, perché nella realtà stiamo immaginando, stiamo facendo un gioco, ma spesso sono proprio questi tipi di gioco che permettono alle profondità di emergere. Inoltre in questi casi spesso agisce molto il valore simbolico di ciò che accade, il simbolo che racchiude la miriade di significati che una situazione porta in sé.

LE STORIE DELLE SUBPERSONALITÀ

Le subpersonalità sono i vestiti che ci mettiamo per mostrarci al mondo e vivere le situazioni quotidiane. Ogni situazione richiede un particolare vestito che possiamo scegliere. Purtroppo non è così semplice, perché molto spesso sono i vestiti che ci scelgono piuttosto che essere noi a farlo. Le subpersonalità sono vere e proprie personalità in miniatura, ognuna con i propri bisogni e desideri, ognuna con la voglia di esprimersi e farsi vedere. Tutti possiamo verificare osservando che in varie situazioni della nostra vita ci comportiamo e siamo diversi. Pensiamo a come siamo diversi a casa rispetto a lavoro o a scuola, come siamo con gli amici o con i colleghi. In ogni situazione mettiamo in scena i nostri attori psichici ed essi si comportano secondo la propria parte. Molto spesso accade che tali subpersonalità comincino a voler essere sempre più presenti. Scrivono loro stesse un copione per la nostra vita e cercano di portarlo a compimento. Ci saranno delle subpersonalità talmente forti da confondere la nostra volontà con la loro. La più forte di tutti potremmo chiamarla Falso Sé, ed è quella attorno alla quale spesso costruiamo il nostro modo di essere, percepire, vivere, disallineandoci dal nostro Sé, che invece rappresenta il progetto più vero della nostra anima.

Le subpersonalità sono talmente furbe che non ci permettono di accorgerci totalmente di esserne schiavi. Ci sembra che collaborino con i nostri reali desideri, ma in realtà ci portano nel loro mondo illusorio. Costruiscono copioni ricchi, pieni di significato, dove il nostro reale bisogno di essere amati si trasforma in necessità di prevaricare sugli altri, di vincere, la nostra voglia naturale di essere liberi si trasforma in necessità di mettere in prigione gli altri e ci costringe a vivere nelle stesse gabbie che abbiamo costruito. Pensiamo di essere la principessa che attende il cavaliere dalla torre, ma in realtà siamo anche il drago che impedisce ad ogni errante di raggiungerci.

Quest’ultima immagine mi è stata regalata da una paziente, Elena, con problemi relazionali importanti, che risalgono a quando da piccola veniva accettata dal padre narcisista solo quando si mostrava bella, magra e vestita bene. Per gran parte della vita ha ricercato in tutti i modi di essere apprezzata per quello che è, ma il suo inconscio stava lavorando all’opposto per confermare il fatto che fosse amabile solo a determinate condizioni. Nell’inconsapevolezza alla fine vince sempre l’inconscio e così tutti quelli che amava finivano per rifiutarla per piccolezze, mentre tutti quelli che l’amavano lei li disprezzava perché ritenuti inferiori. Aveva sviluppato una grande razionalità come meccanismo difensivo alla sua sofferenza e bisogno d’amore dimostrando sempre di essere estremamente brillante e intelligente, ma anche difficilmente penetrabile nelle sue emozioni. Mi diceva che lei era molto forte e questo era dimostrato dal fatto che non aveva alcun bisogno di avere un compagno, stava benissimo da sola. Aveva tante relazioni sessuali soddisfacendo il bisogno di sentirsi bella e in realtà essere amabile, ma nei suoi occhi si intravedeva che voleva ben altro da tutto ciò. Il sesso era la maschera che gli impediva di vedere ciò che realmente il suo cuore voleva. Quel giorno, mentre mi elencava le sue conquiste con un certo disprezzo verso i corteggiatori, le chiesi se si era mai sentita una principessa o se avesse mai voluto esserlo. Questo la riportò in contatto con le sue emozioni, con la sua parte sognatrice di bambina. Mi disse che le piaceva tuttora sentirsi la principessa del castello in attesa di un principe azzurro che la portasse via dalla sua prigione. Ma il principe azzurro doveva sconfiggere un drago enorme che proteggeva la torre nella quale era rinchiusa. Le chiesi come facesse un avventuriero a sconfiggere il mostro e mentre mi rispondeva si accorse che in realtà a tutti i possibili principi azzurri interessava solo il drago e non la principessa. Il drago era come lei si mostrava agli altri affinché non arrivassero al suo cuore. Aveva seminato intorno al castello tante trappole, trappole che non rendevano possibile il raggiungimento della torre. Il solo modo per arrivare al suo cuore era quello di non dare alcuna importanza al drago, ma dirigersi direttamente verso la torre. La strada per raggiungere il centro è spesso più semplice di come pensiamo, se riusciamo ad andare oltre le illusioni che le nostre difese ci impongono sul nostro cammino. Il drago faceva il suo lavoro, o meglio il lavoro che una subpersonalità della ragazza gli aveva imposto. Questa subpersonalità nasceva dalla paura di non essere amabile per il padre se non a determinate condizioni. L’amore condizionato porta a una grande confusione, porta all’idea che dobbiamo fingere per essere amati, porta a credere di non avere un vero valore, incrinando molto la nostra autostima. Elena voleva essere amata, come ogni persona di questa terra, ma aveva bisogno di qualcosa di particolare che la rendesse amabile, vista, accettata, cercava un posto suo proprio da dove tutti avrebbero potuto ammirarla. Ha trovato questo nella sua capacità di analizzare tutto, nella sua brillantezza mentale. Ha trovato molti che la ammiravano per questo, ma quel giorno mi disse che nessuno l’aveva mai conosciuta davvero. Gli altri amavano il vestito che portava e non la persona che era. Il drago racchiudeva tutte le capacità che si era costruita, tutto ciò che gli altri ammiravano, ma il drago vinceva sempre, perché non c’era nessuno che si accorgesse del tranello.

Difficilmente saremmo arrivati a queste conclusioni, vista l’estrema razionalità di Elena, se non fosse intervenuta la storia, il simbolo, l’aggancio al mondo magico, capace di aggirare anche le trappole più intelligenti che il nostro inconscio è capace di creare.

COGLIERE LE IMMAGINI DELL’ALTRO

Il lavoro di uno psicoterapeuta sta spesso nel saper cogliere ciò che scaturisce dal Sé del paziente. La voce dell’inconscio superiore, come quella dell’inconscio inferiore, si esprime più facilmente con le immagini, le metafore, i simboli. Se un paziente si esprime attraverso una di queste modalità, dobbiamo essere in grado di cogliere l’importanza di ciò che si cela, ma che allo stesso tempo vuole mostrarsi. Lasciar passare un’immagine senza darle importanza è come girare le pagine di un libro senza leggerne il contenuto. L’immagine va fermata, immagazzinata e usata, perché, essendo stata tirata fuori dal paziente, ha sicuramente un grande potere trasformativo.

Spesso ci sono sensazioni, emozioni, desideri che non possiamo descrivere con normali frasi, ma abbiamo bisogno di trovare una metafora o un simbolo, che possa esprimere il nostro sentire. La forza di questa possibilità sta nel fatto che, oltre ad individuare meglio ciò che proviamo, possiamo cogliere nel simbolo o nella metafora, il loro potere trasformativo, le potenzialità che questi aspetti portano in sé. Il nostro malessere sembra sempre che non abbia possibilità di modificarsi, ma rapportandolo ad una immagine trasformativa ci può dare la fiducia in un possibile cambiamento.

Talvolta l’immagine è direttamente portata dal paziente, altre volte viene stimolata attraverso domande o varie tecniche tra cui il sogno guidato, che porta il paziente stesso a confrontarsi con il suo mondo immaginario.

Un ragazzo con una importante carenza di autostima, mi disse di sentirsi debole e fragile come una formica. L’inconscio aveva trovato una immagine molto efficace per il tipo di lavoro che stavamo facendo. Dopo aver disegnato questa immagine e analizzata un po’, ci siamo soffermati sulle qualità della formica. Gli feci notare che dietro quella fragilità apparente la formica in realtà è uno degli esseri viventi più forti rapportati al loro peso. Il fatto di aver trovato proprio quell’immagine mi fece intuire l’importanza di lavorare sulla forza del mio paziente, sui grandi successi ottenuti nonostante le grandi difficoltà che aveva vissuto.

Spesso l’inconscio ci rimanda delle immagini che hanno in sé non soltanto il problema, ma anche la sua soluzione. Siamo programmati per stare bene, per autorealizzarsi e non per rimanere intrappolati nei nostri problemi. Mi stupisco sempre molto di come l’inconscio riesca a far passare per innocue certe immagini terrificanti e viceversa faccia passare per terrificanti certe immagini innocue. Nel rapporto terapeutico talvolta è proprio l’inconscio a voler far svelare il tranello che si nasconde dietro le immagini che suggerisce. Una paziente a cui chiesi di descrivermi sua madre, mi disse che assomigliava molto alla vecchia strega di Biancaneve, così dolce e indifesa secondo la sua opinione. Come immagine archetipica è chiaro che la strega di Biancaneve era tutt’altro che dolce e indifesa, visto anche che il suo scopo era quello di uccidere la figliastra. L’inconscio della paziente in questo caso, in una maniera nemmeno tanto velata, voleva farci lavorare sulle reali difficoltà non ancora risolte nella diade madre-figlia e sul fatto che realmente come abbiamo avuto poi modo di vedere, la madre si sentiva minacciata dalla bellezza della figlia, che cercava in qualche modo di rendersi meno femminile per non far soffrire la madre. In questo caso come in altri fu possibile lavorare direttamente sull’immagine del personaggio emerso, cercando di conoscerlo nelle profondità, analizzare il perverso potere che questi aveva nella quotidianità e cercare di fare in modo che venisse restituito come un fantasma ben più innocuo.

L’elaborazione dell’immagine portata dall’altro è molto importante, permette un lavoro molto profondo e predispone alla trasformazione. È possibile intervenire con esercizi veri e propri di visualizzazione per rievocare l’immagine, sogni guidati o tecniche come la sedia vuota, mettendo in quest’ultima proprio il personaggio che stiamo trattando. Parlare con l’immagine creata è dialogare con il fantasma che si nasconde dentro di noi e che l’immagine stessa rappresenta. Potrebbe essere il fantasma interiore di una madre, un padre, un giudice, che influenza costantemente il nostro modo di vederci, di vedere gli altri, di agire nel mondo. Potrebbe essere un personaggio che ci spaventa, ma che nel dialogo vis a vis si svela per quello che è, svela il motivo per cui accompagna il nostro percorso, perché ci rimprovera, perché ci spaventa. Potrebbe rivelarsi molto più innocuo, fragile e infine diventare nostro alleato nella crescita.

CONCLUSIONE

L’importante del raccontare vale sia con i bambini che con gli adulti, che comunque sentono il bisogno di qualcuno che si prenda cura di loro fino a quando saranno in grado di camminare, correre e volare con le proprie potenzialità. Sarà importante in alcuni momenti essere noi terapeuti a raccontare, altre volte sarà più importante ascoltare la storia dell’altro, incentivare la creatività e il contatto con immagini provenienti dall’inconscio. Se si scomoda una stella per evocare la luce interiore di una persona, o il timone di una nave per ascoltare la propria volontà, il potere che queste immagini hanno si portano dentro la forza che l’immagine stessa ha in sé, e questo guida il potenziale verso la sua realizzazione. Spesso le immagini evocatrici hanno un risvolto poetico, di sogno e magia. Quando c’è poesia in ciò che diciamo il nostro cuore ha un battito diverso, si dimentica la paura e si ha maggior fiducia in noi stessi e nel nostro potere trasformativo. La storia parla spesso all’anima dell’altro e nell’altro rimane in incubazione fino a quando si realizzerà il messaggio che si porta dietro. Divertiamoci a raccontare storie, costruiamole insieme ai nostri pazienti, oppure godiamo nel farcele raccontare di nuove. È molto intimo il raccontare, crea un legame importante che può mettere più facilmente in contatto il Sé di chi ascolta con il Sé di chi parla, e nella loro unione nascerà quel terzo capace di rendere reale il cambiamento. Se sarà l’altro a raccontare o a regalarci un’immagine, possiamo esserne grati, perché l’altro ha scelto di aprirsi con noi, di condividere un frammento della sua anima.

Bibliografia

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