L’ESPERIENZA DELLA NASCITA NEL VIAGGIO DELLA VITA

INTRODUZIONE

La vita comincia sempre da una nascita, ma se guardiamo bene la nascita è già una conseguenza di qualcosa che è accaduto prima. Apriamo i nostri occhi al mondo quando siamo già a un certo punto del nostro sviluppo, quando il nostro organismo è capace di respirare autonomamente, è capace di affrontare le diverse temperature, è capace di alimentarsi attraverso la suzione. All’interno dell’utero si ha uno sviluppo incredibile, indispensabile alla vita, uno sviluppo che, secondo vari teorici tra cui Otto Rank e Stanislav Grof, il nostro essere percepisce, ne sperimenta i passaggi, le paure e le gioie.

Tali momenti sembra siano molto importanti, ci accompagnano nella vita di tutti i giorni, influenzando spesso i nostri desideri, le nostre scelte e le nostre rinunce.

Verrà trattato l’argomento prendendo come riferimento le ricerche esperienziali di Stanislav Grof sul trauma della nascita, cercando di individuare dei possibili contatti tra il mondo intrauterino e quello fuori dall’utero, dando valore a un’esperienza che, se pur lontana dai nostri ricordi razionali, è stata vissuta da tutti e quindi in tutti noi ne è rimasta una traccia.

FASI DELLA NASCITA

Stanislav Grof in oltre 25000 osservazioni cliniche su soggetti in terapia psichedelica (terapia che favorisce la regressione), ha potuto dimostrare empiricamente che tutti i soggetti riproponevano lo stesso schema riferendosi alla vita intrauterina.

Grof individua in particolare quattro fasi chiamate Matrici Perinatali di Base (MPB):

  1. Fase dello stato intrauterino indisturbato
  2. Esperienza del travaglio
  3. Fase di transito del nascituro lungo il canale uterino
  4. Uscita dal corpo della madre

Dalla sua analisi sembra che nella prima fase il feto si senta in una dimensione di estrema pace, contatto con l’universo, identificazioni con pesci e altre forme acquatiche, “estasi oceanica” o “cosmica”. Sembra che vi sia uno stato di coscienza simile alle “esperienze di vetta” delineate da Maslow. Già Otto Rank descriveva questo momento come estasi mistica. In questa fase è quasi impossibile trovare qualcosa di negativo nell’esistenza; ogni cosa appare perfetta. Questa dimensione è un po’ l’archetipo del Paradiso dove viene vissuto l’Amore puro, privo della sua opposta polarità, la paura.

Durante la nostra permanenza sulla terra, ricerchiamo questo periodo estatico, ma difficilmente lo raggiungeremo senza un decisivo tuffo nella consapevolezza.

Dopo questo momento di simbiosi con l’universo, ci ritroviamo, secondo questo schema, nella seconda fase in cui si ha l’esperienza del travaglio senza dilatazione; tale momento è indicato come molto angoscioso, si ha l’impressione di sprofondare in un vortice, in un imbuto senza sbocco, di cadere all’Inferno; tutte immagini che capovolgono l’esperienza precedente. Il sentire predominante è riassumibile come attacco di panico, non avere vie d’uscita, senso d’impotenza, ma soprattutto quello che compare sulla scena è la paura. Durante le prime due matrici si formano così le due principali polarità, amore e paura, che da lì in poi condizioneranno tutta la vita.

Siamo nella terra di mezzo, una terra ormai troppo stretta per il nostro sviluppo fisico, ma al contempo non troviamo nessun’altra strada alternativa e possibile, siamo incastrati in un tempo infinito senza spazio.

Qui si ha l’incontro con il Guardiano della Soglia, colui che impedisce al viandante di procedere fino a quando la Grande Madre non aprirà i suoi cancelli, e che mostra ad esso il suo volto terrifico, al fine di scoraggiarne goffi e pericolosi tentativi di andare oltre. Qui troviamo il bisogno di libertà, di liberarsi dalla paura, da ciò che ci costringe in un posto che sta cominciando a diventare sempre più piccolo e stretto, quel posto che poco tempo prima era il Tempio della Gioia.

A questo punto avviene qualcosa di molto importante, una prima autentica sintesi in grado di unire i due opposti, amore e paura, con il richiamo del mondo nuovo, della nuova luce che penetra attraverso la dilatazione della cervice. J. Campbell dice che le coppie di contrari sono “le rocce che schiacciano il viandante, ma tra le quali l’eroe deve assolutamente passare”. La nuova vita passa da qui; se rimanessimo nello stato di simbiosi e amore con l’universo amniotico sicuramente non sentiremmo alcuna spinta a cercare la strada che ci permetta di nascere, visto che vorremmo rimanere per sempre in quello stato; viceversa se ci lasciassimo annientare dalla forza della paura rischieremmo di restare intrappolati nelle tese corde dei nostri cordoni ombelicali senza più riuscire a trovare l’uscita. La chiamata della luce ci porta ora una prospettiva nuova, una sintesi tra la potenza divina e l’impotenza, un passaggio verso la dimensione della Volontà di nascere.

Siamo in questa fase entrati nella terza matrice di Grof; qui, secondo le ricerche di quest’ultimo, si ha la sensazione di avere una grandissima carica energetica, perlopiù sessuale, compaiono immagini di battaglie titaniche, disastri naturali e cosmici, fusione dionisiaca del piacere con la violenza. È collegata allo schema ciclico di morte e rinascita ed ha come immagine archetipica principale quella del fuoco come rinnovamento, purificazione, capacità creativa e propulsiva. È come se tutte le forze degl’inferi, quelle scoperte nella seconda matrice, si unissero insieme attraverso un misterioso potere (la Volontà), per portare una carica energetica così forte da permettere la vita. La luce dà in questa fase una direzione a tutte le energie in quel momento accessibili.

A proposito della Volontà scrive Assagioli:

Quando il pericolo minaccia di paralizzarci, improvvisamente, dalle profondità misteriose del nostro essere, sale una forza insospettata che ci permette di fermarci risolutamente sull’orlo del precipizio o di affrontare un aggressore con calma e decisione” (Assagioli, R. L’Atto di Volontà)

La quarta e ultima matrice è caratterizzata per Grof da un’enorme espansione dello spazio percepito, da immagini di luce, di rinascita, di piena libertà; il simbolo per eccellenza di questa fase è la leggendaria Fenice che costruisce il suo rogo al fine di rinascere dalle sue ceneri a nuova vita.

Forse quello stato di sofferenza della seconda matrice non è che la legna che noi continuamente accumuliamo nell’attesa di quel fuoco che può permetterci di rinascere e vivere una vita sempre più vera.

Ad ogni fine di ciclo ci costruiamo una casa nuova, un nuovo luogo simbiotico e il ciclo riparte.

NASCITA COME SIMBOLO DELLA VITA

Il processo della nascita descritto da Grof ricorda molto lo schema di van Gennep sui riti di passaggio e quello di J. Campbell sulle tappe del viaggio dell’eroe. Ambedue descrivono tre fasi principali:

  1. Separazione
  2. Transizione per van Gennep, Iniziazione per J. Campbell
  3. Incorporazione per Gennep, ritorno per J. Campbell

Ogni rito di passaggio legittima la crescita e una volta affrontato non si è più come prima ma entriamo a far parte di una dimensione più grande e più utile alla comunità.

La separazione è la fase in cui si ha una percezione nostra o imposta dalla società di appartenenza, che il nostro microsistema ci sta stretto, stiamo crescendo e abbiamo bisogno di un ambiente più vasto, di uno spazio dove contenere tutte le nuove pulsioni e i nuovi desideri, vissuti fino a quel momento come mostri interni. Corrisponde alla seconda matrice di Grof, durante la quale il feto comincia a crescere e sentire che l’ambiente a lui caro è piccolo, scomodo, imprigionante e angosciante. Sente di volerne uscire, ma non vi sono per il momento vie d’uscita e il piccolo si sente sospeso tra il richiamo verso il ventre materno e quello verso la vita, di cui ancora non ha una percezione precisa. Allo stesso modo durante le fasi di passaggio dei riti iniziatici l’individuo si sente inizialmente sperso, solo, alla ricerca di un’identità di cui sente la necessità, ma non ne conosce le fattezze; sente forte dentro di sé il richiamo della sua casa materna, la voglia di tornare indietro, ma sa che chi si volta è perduto, che la vita è davanti a lui, nel proseguire, nell’andare oltre quel terreno viscido che lo invischia, lo trattiene, lo incolla alla sua inconsapevolezza.

Se il novizio non riesce dopo lungo peregrinare, a trovare la strada verso l’uscita dal “ventre materno”, sarà disponibile ad accettare qualsiasi altra strada che gli verrà proposta piuttosto che rimanere nel disagio di non essere niente e di non sapere dove andare e sarà preda facile dei condizionamenti; tendenzialmente nei riti iniziatici non si spinge il novizio verso una direzione, ma si accetta e si condivide le sue scelte, fungendo solo da contenitore del percorso. Così avviene anche durante il parto che, se non indotto, alterato o provocato dal taglio cesareo, porta alla risoluzione naturale della scelta del giusto canale e alla certezza di essere riusciti a uscire dall’Inferno da soli. Questo potrebbe essere un momento molto importante da tenere presente nei momenti in cui l’impotenza blocca la nostra vita. Avercela fatta quella volta può rappresentare la possibilità di potercela fare ancora.

C’è un iter stabilito per uscire dal ventre materno e questo iter passa dalla dilatazione dell’utero e la chiamata da parte della luce. Il feto riesce a incanalare tutte le sue forze verso l’unico obiettivo dell’uscita, scoprendo di avere delle risorse e una potenza inimmaginabile fino a poco tempo prima; se le forze collaborano insieme unite dalla Volontà, la nascita è pressoché qualcosa di naturale e realisticamente possibile (anche la madre deve chiaramente collaborare in questo processo).

Nel rito di passaggio questa fase può essere individuata dall’iniziazione, durante la quale le varie risorse individuali si dispiegano e si comincia a delineare le caratteristiche di una identità nuova e unica che sarà molto importante per l’evoluzione della comunità a cui appartiene. Saranno affrontati e ammansiti tutti i mostri che si sono presentati nella fase precedente e saranno trasformati in risorse importanti per affrontare il proseguo della vita.

Come animali totemici i mostri saranno inizialmente conosciuti proiettandoli sugli altri, poi posseduti reintroiettandoli su di sé e infine trasformati grazie alla capacità di sintetizzarli attraverso la consapevolezza. Questo è un po’ il meccanismo di base della seconda e terza fase ovvero all’inizio il piccolo si sentirà solo, vittima di un ambiente pericoloso e ostile, non sentirà fiducia né speranza, perché ciò che lo circonda è più forte e grande di lui, subirà l’influenza e la forza dei suoi mostri interni che vedrà come creature esterne da sé. Questo fino a quando l’emergere della luce porterà maggior consapevolezza e permetterà di vedere i mostri nella loro essenza, come realmente sono e potrà così re introiettarli dando ad ognuno di essi il giusto ruolo per permettere la nascita. Vale il principio che solo se siamo in grado di guardare in faccia le nostre paure possiamo utilizzarle per i nostri scopi.

Infine si ha la fase del ritorno, una fase considerata molto difficoltosa, perché necessita dell’accettazione del cambiamento. Nei riti viene definita incorporazione, cioè l’individuo torna a far parte della comunità, ma con ruoli, diritti e doveri totalmente diversi.

La fase di ritorno per il bambino che nasce è di estrema gioia, è il ritorno nella culla mistificata dell’Universo, è un tuffo nella pienezza più totale, che potremmo chiamare estasi mistica.

Dall’estasi mistica della nascita il bambino ben presto viene allontanato, comincia a sentirsi solo, come nella fase due di Grof, sente emergere desideri nuovi a cui non sa dare un nome, sente di non poter vivere senza il contatto con la propria madre.

L’incorporamento ha bisogno di una lunga fase di adattamento, necessita che venga ricreato un clima simbiotico e protettivo, fino a quando la risorse interiori spingeranno verso una nuova indipendenza, un nuovo spazio.

PATOLOGIA COME IMMOBILITÀ

Nel suo procedere la vita si manifesta attraverso il movimento; il viaggio dell’uomo è anch’esso movimento costante alla ricerca delle proprie orme perdute. È come se la vita di ognuno fosse una imponente vallata ricoperta di neve morbida, soffice e fresca, ancora non calpestata da alcun passaggio. Il destino, Sé o anima, pone i suoi piedi sulla vallata lasciando leggere orme, ma incancellabili, sulla neve; tali orme sono indice della strada che dobbiamo percorrere, il motivo per cui siamo nati, sono le tracce che ricercheremo durante la vita. A un certo punto però la vallata comincia a popolarsi di altre persone che non rispettano la sacralità del posto e con i loro piedi giganti sporcano la vallata con centinaia di orme alternative che confondono il nostro viaggio, creano tragitti diversi molto visibili e che spesso siamo costretti a seguire anche se non sappiamo dove portano. Ci ritroviamo così a girare a vuoto lungo vortici e cerchi infiniti di passi umani altrui che a poco a poco diventano i nostri e non troviamo il modo di uscirne, tanto da far sì che continuamente le situazioni si ripetano. Essere in questa condizione non è certo uscire dal canale giusto del nostro parto psichico, ma rimanere ancora nel ventre materno che però non è più in grado di alimentarci come prima, ma addirittura ci invia attraverso il cordone ombelicale il suo latte ormai avariato.

I solchi lasciati dalle orme altrui diventano le nostre prigioni psichiche o come dice Alberti le nostre “case patologiche”, che se da una parte ci rassicurano e ci danno una direzione, dall’altra ci trattengono lontani dalla nostra vera strada. Invece di camminare in avanti questi percorsi alternativi procedono in senso circolare e dopo lungo peregrinare ci ritroviamo sempre al punto di partenza. Presto ci affezioniamo a queste prigioni e cominciamo a renderle sempre più sicure, più nostre, le trasformiamo in fortini invalicabili, protetti da eserciti di mostri nutriti dalla nostra paura di uscire. È proprio la paura che impedisce il procedere, che invischia le nostre capacità, che ci attira nella sua tana e ci promette luoghi sicuri dove nessuno ci farà soffrire, ma proprio quella tana è la vera sofferenza, è l’impossibilità di vedere la luce.

Immagino il bambino nel ventre materno che cerca la sua direzione, ma non può far nulla se non girare su se stesso, perché la luce non si è ancora rivelata. Che fare allora? Arriva un momento ed è un momento preciso in cui tutto si ferma, il bambino è in ascolto totale, la luce filtra e il piccolo spicca il volo verso la libertà. Mi piace immaginare questa sincronicità anche nella vita dell’uomo che, inciampato dentro la sua prigione, si rende conto che forse ci può essere un’alternativa alla sua paura. Questo può essere un momento Sacro, unico, irripetibile, nel quale il nostro ascolto ci fa nuovamente intravedere il nostro percorso ed è proprio in quell’attimo dove il nostro universo si ferma che dobbiamo scoccare la freccia che ci farà uscire dal guscio.

Viceversa perdere quell’attimo è rimanere impantanati nell’ombra, nella negazione della luce, nella certezza del non muoversi e dell’aspettare un salvatore che ci faccia uscire dal nostro vittimismo.

Le occasioni per uscire si ripeteranno, ma una volta cronicizzata la voglia di non muoversi, le possibilità di ascolto del momento giusto diminuiranno. Verranno trovati percorsi alternativi che comunque porteranno a una sorta di equilibrio, ma fino a quando non si volgerà lo sguardo in alto, non si potrà vedere la nostra strada.

Sicuramente l’immobilità e impotenza vissuta da ogni nascituro nel ventre materno porta delle tracce profonde nel nostro inconscio che vengono riattivate ogni volta che qualcosa ci riporta sensazioni simili, che sono talmente spiacevoli che faremmo di tutto per allontanarle, ma spesso non è possibile e siamo costretti a scappare o rifugiarci passivamente nella nostra immobilità.

SUBPERSONALITÀ

Le sub personalità sono gli attori della nostra vita, personaggi psichici con cui l’uomo si identifica, ognuno dei quali ha una propria motivazione e un proprio stile, spesso assai diverso dagli altri. Spesso la stessa persona pare diversa in molteplici situazioni di vita, perché ogni sub personalità trova espressione in contesti particolari. Avremo così in un contesto familiare, la sub personalità di figlio, di padre, di madre; avremo sub personalità sociali, professionali, psicologiche. Spesso vengono innescate in automatico e la persona non è cosciente della sua molteplicità interiore. Così in famiglia risponderemo sempre nel solito modo, così come nelle altre situazioni di vita.

Accade talvolta che il regista della nostra vita, l’Io, perda il proprio ruolo e lasci che un falso Sé o una sub personalità dominante diriga il suo regno. Alcune sub personalità vengono quindi subite e diventano mostri psichici che ci dirigono come burattini verso risposte spesso contrastanti con la nostra Volontà e la paura diventa il canale di un gesto, un’emozione, un’azione.

Questo processo involutivo è innescato dai condizionamenti, dalle strade che le situazioni ci impongono forse già dal periodo perinatale. Siamo intimoriti, non sentiamo di avere le giuste risorse, e a quel punto le sub personalità intervengono a darci una risposta efficace che possa allontanare l’ansia che ci portiamo dentro.

Tali sub personalità se conosciute e dirette, sono le nostre risorse, le nostre capacità, il nostro modo unico di manifestarci al mondo, sono la nota unica che mancava all’Universo.

Conoscere le variegate sub personalità, è slegarle dal contesto, disidentificarsene, vederle con l’occhio di un falco che sa esattamente ciò che la sua preda potrà dargli una volta raggiunta. Così anche la sub personalità ritenuta ostacolante in determinati contesti ha una sua importanza, una caratteristica indispensabile a raggiungere i nostri obiettivi.

Ogni sub personalità dominante ha inoltre una sua opposta inconscia, che nasce dalla stessa radice e può essere svelata disidentificandosi dalla prima. Conosciuta la seconda è possibile avviare un processo di sintesi che si conclude con una nuova sub personalità più evoluta e utilizzabile. Ad esempio il senso di solitudine e di separatività, secondo Alberti (2008), può portare a due subersonalità che sono “due metà complementari di una stessa realtà unitaria”: la sub personalità miserabile e quella presuntuosa, la sintesi delle quali porta alla sub personalità umile, che ci permette di essere quello che siamo e niente di più, né di meno.

Se consideriamo che ogni esperienza lascia una traccia nella vita di un individuo e tale traccia può portare alla manifestazione di sub personalità, possiamo ritenere plausibile che anche la vita perinatale possa influire su questo.

Potremmo ad esempio ritenere che la paura e angoscia derivante dal senso di non avere scampo quando il collo dell’utero è ancora chiuso e la via d’uscita non è ancora aperta, possa portare il piccolo a sentirsi vittima del suo microcosmo. Il suo sentirsi vittima sarà accompagnato da sensazioni peculiari a quel ruolo, sia fisiche, emotive e di immagini. Tale traccia rimarrà dentro di lui nonostante l’apertura del canale e il raggiungimento dell’uscita, e si mostrerà tutte le volte che un evento scatenerà la paura dell’intrappolamento fisico, emotivo e immaginifico.

L’altra faccia che comparirà sulla scena sarà quella del carnefice, che nascerà dalla stessa paura, ma, vista l’estrema sofferenza provata dalla vittima, troverà come modo di manifestarsi il diventare il microcosmo che imprigiona. Questo meccanismo verrà attivato probabilmente successivamente, anche perché dagli studi compiuti da Grof sembra che il ruolo vissuto da tutti i suoi pazienti nella seconda fase di nascita, sia proprio quello di vittima.

Potrebbe essere presente un altro importante conflitto in questa fase, ovvero quello tra il voler uscire e il voler restare, tra l’indipendenza-rischio e la dipendenza-sicurezza, un conflitto che dovrà per forza spuntarlo l’indipendenza altrimenti si andrà incontro sicuramente alla morte. La strada che porta all’indipendenza e quindi all’uscita dall’utero, sarà di per sé molto dura, in contatto con materiali biologici putridi, viscidi, sporchi. Nonostante questo la Volontà di vivere porterà quell’energia necessaria all’uscita, renderà lo sporco tragitto più sopportabile.

Questo conflitto può accadere nei tantissimi altri momenti della vita dove dobbiamo abbandonare le vecchie sicurezze per le nuove. Dobbiamo lottare con le forze invischianti e putride del nostro passato che ci incolla, ma se la volontà che ci accompagna è forte, buona e sapiente il percorso sarà naturale.

 

MEMORIA

Tutto è memoria…

L’essere vivente soffre, ricorda.

Il corpo non dimentica mai nulla

Debré

Gli studi sulla memoria indicano che esiste una memoria implicita o emotiva già presente nel feto umano;. è un tipo di memoria arcaica nella quale viene trasferito qualsiasi suono o sensazione che è in grado di scatenare una reazione emotiva. C’è chi ipotizza che esista una memoria priva di un substrato materiale e che conservi i dati in campi attualmente ignoti. Kandel studiò i meccanismi mnemonici di una lumaca di mare, che nella scala evolutiva è molto al di sotto del neonato. Se questa ha una memoria, perché è opinione comune che il feto non ne abbia?

Assagioli ci parla di influssi che derivano non solo dall’ambiente a noi prossimo, ma anche dagli antenati che mai abbiamo conosciuto; come fa a influenzarci qualcosa di cui non conosciamo neanche l’esistenza? Viene spesso ipotizzata una memoria cellulare che porti di generazione in generazione l’impronta emotiva della famiglia e delle varie evoluzioni dell’umanità. Se ipotizziamo che i ricordi emotivi si impressionino nelle cellule, è possibile ipotizzare che questo avvenga sin dalla prima divisione cellulare.

La “Rivista Italiana Care in Perinatologia” (2008) parlando dei disordini dell’attaccamento, sostiene l’importanza del trauma prenatale come causa prima dei disordini stessi e in particolare mette in evidenza il sistema relazionale madre-feto che passa durante il concepimento, l’impianto dell’embrione e attraverso il cordone ombelicale. Tutti e tre questi processi implicano un attaccamento, lo spermatozoo che si unisce all’ovulo, l’ovulo fecondato che si attacca alla parete uterina e infine il cordone ombelicale che permette al feto di attaccarsi alla madre e ricevere nutrimento (e tossine) da essa. La Rivista va ancora oltre sostenendo che se un atto sessuale con il quale si concepisce il bambino, è ostile, ambivalente, carico di ansia, paura e quant’altro di negativo, sia l’ovulo che lo spermatozoo importano in sé questo imprinting cellulare che il bambino “agirà simbolicamente nel proprio comportamento”. Questo spiegherebbe perché molti bambini amati tantissimo, ma non voluti al momento del concepimento soffrono di sensi di colpa e di inadeguatezza molto profondi.

Sembra che la memoria emotiva e fisica sia suddivisa in archivi complessi all’interno dei quali i ricordi non seguono un ordine temporale, ma un ordine di risonanza emotiva. Ciò vuol dire che un determinato evento richiama un altro evento che nel passato ha suscitato la stessa reazione emotiva e questo ne richiama altri sempre più lontani nel tempo e questo avviene anche se il ricordo cosciente non è presente. Un dato evento è spesso molto più intenso di come dovrebbe essere se preso singolarmente, perché esso richiama nel presente tutte le risposte emotive ad eventi simili passate. Quindi ad esempio un abbandono può richiamare la sofferenza di tutti gli stati abbandonici che abbiamo subito nella nostra vita, fino ad arrivare ad esempio alla sofferenza di un’uscita troppo precoce dal ventre materno.

La funzione pensiero nelle fasi precedenti la nascita sembra essere ancora troppo arcaica per poter dare una sequenzialità agli eventi e ai ricordi; il ricordo stesso potrebbe imprimersi sulla parte sensoriale, come sostiene Tomatis ( in particolare sugli arti inferiori per poi raggiungere le varie zone cerebrali), e variare di intensità grazie alla differenza di percezione emotiva. Si spiegherebbe così il perché certe dinamiche scatenano nell’individuo risposte fisiche e emotive molto arcaiche, nonostante ci sia totale assenza di ricordo cognitivo. Spesso alcune risposte sono eccessivamente forti rispetto al fatto reale forse perché questo richiama una memoria antica non elaborata in modo efficace, ma vissuta esclusivamente a livello sensoriale ed emotivo, che è un livello privo della dimensione spazio temporale e dove tutto avviene nell’istante. Così quando un evento richiama la sensazione e l’emozione d’angoscia vissuta dal feto, non è possibile senza un buon allenamento trovare una via d’uscita, perché nella vita intrauterina in quel dato istante era possibile vivere solo quel momento d’angoscia, non poteva essere messa in relazione l’angoscia stessa con la sensazione piacevole dell’uscita dall’utero.

L’ASCOLTO NEL FETO

Prima dell’inizio vi era l’ascolto”

Tomatis

“Le basterà lasciar vibrare in sé l’essere

per poter trovare le parole della vita,

i canti d’amore diretti a questa parte di sé

che si fonde nel bambino che porta”

Tomatis

L’ascolto è il vero richiamo alla vita. Sembra che sia una capacità innata che nasca con la vita stessa. Mi riferisco non tanto all’ascolto auricolare che necessita dello sviluppo dell’orecchio, ma quell’ascolto vibrazionale che è proprio di ogni essere vivente, comprese le più piccole cellule.

Se ci pensiamo bene ognuno di noi è capace di intuire la vibrazione sottile che sta dietro ad una frase, che a seconda di come viene pronunciata riscuote risposte totalmente diverse. L’ascolto non appartiene solo alle orecchie, ma a qualsiasi parte pulsante dentro di noi, dal cuore alle più piccole parti invisibili al nostro occhio umano. Il feto ascolta l’amore della madre, l’embrione ascolta il moltiplicarsi della vita intorno a sé, lo spermatozoo ascolta la vibrazione dell’ovulo per non perdersi nei districati sentieri del corpo umano.

Ognuno di noi ha sperimentato che un abbraccio può valere mille parole, il contatto con la pelle comunica molto più di una frase detta bene; il piccolo ha bisogno di essere toccato di sentire con la propria pelle quell’amore rassicurante di cui tanto ha bisogno. Non può ancora comprendere i significati verbali, ma può sentire l’angoscia, la pace, il rancore, l’amore della madre; tutto questo può sentirlo anche all’interno del guscio materno, dove sì i suoni saranno diversi, ma le emozioni passeranno come acqua dalle fessure di una rete. Non potrà mai dare un nome a ciò che gli accade, perché quello è possibile solo grazie al linguaggio, ma potrà sentire di essere voluto, amato, che là fuori c’è qualcosa di meraviglioso, un Dio che lo aspetta, lo ama, lo porta dentro di sé; viceversa potrà sentire di non essere voluto, di essere uno sbaglio, che là fuori non dovrà disturbare, che lo attende solo sofferenza. Tutto questo avverrà nella consapevolezza di un attimo, perché solo il tempo presente può essere vissuto dal feto, ma quelle sensazioni culleranno il viaggio tra le onde dell’esistenza, fino a quando, divenuto capitano della sua imbarcazione, prenderà in mano il timone della sua vita.

Le ricerche sull’imprinting ci dicono che se delle uova di uccello canterino vengono covate da uccelli privi della facoltà di cantare, i piccoli che nasceranno perderanno la capacità di cantare.

Se noi trasponiamo questo concetto nel feto possiamo presumere che anche il guscio materno possa dare degli imprinting importanti per la vita del bambino. Mi è capitato spesso al Meyer di Firenze, dove faccio tirocinio, di assistere a prove molto importanti che potrebbero confermare questa ipotesi; come sappiamo il nostro inconscio non ragiona in negativo e quindi tutto ciò che noi diciamo di non volere viene dall’inconscio tradotto in volere. Una coppia di genitori è venuta per una consultazione a causa dei problemi di alopecia della figlia decenne evidenti che però non trovavano alcun riscontro organico. Il padre appariva disperato per questo problema che la figlia presentava ad intervalli di tempo casuali, sin dalla nascita. Indagando un po’ in profondità sulle fantasie dei genitori stessi, il padre ci disse che durante la gravidanza, era veramente felice che gli nascesse una figlia, così a differenza sua che stava diventando calvo, la bambina non avrebbe mai sofferto di problemi ai capelli e questo dice che lo ripeteva spesso alla moglie e mentre carezzava la pancia della futura mamma.

La “Rivista Italiana Care in Perinatologia” (2008), parlando dell’importanza del padre durante la gravidanza, ci dice che quest’ultimo dovrebbe fare del suo “pensiero un utero buono e accogliente per il figlio che nasce”, perché il “pensiero intriso di emozione e desiderio, sa creare”. Già il feto, così come il bambino, l’adulto e l’anziano, necessita del diritto di essere amato senza condizioni.

Una frase come quella del padre descritto in precedenza, può essere trasmessa al feto come ti amo se hai tutti i capelli, non ti amo se sei calvo. L’amore condizionato spinge chiunque all’aggressività o a sentimenti negativi nei riguardi di se stessi; ambedue le strade potranno portare a porre l’attenzione (anche se inconscia) sull’oggetto che condiziona l’amore del padre e della madre, e questo potrà portare a delle conseguenze a livello somatico, psicologico e emotivo.

PAURA DI NASCERE

Sulla sindrome abbandonica Caldironi ipotizza che proprio “il distacco dal ventre materno causi una prima sindrome abbandonica”. Mi soffermo un attimo su questo punto: Caldironi distingue tra sindrome abbandonica e angoscia di separazione sostenendo che la prima è subita dall’individuo, che si è sentito abbandonato, mentre l’altra è la risultante di un conflitto tra il desiderio di andare e il bisogno di restare.

Una ragazza di 30 anni soffre di angoscia di separazione e sente forte questo conflitto dentro di sé, tanto da essere presa da forte ansia ogni qualvolta pensa al fatto che presto dovrà andare via da casa. Ritiene che questa paura sia profondamente irrazionale, perché in realtà lei sente un estremo desiderio di andare via, ma non ci riesce. Ho chiesto se sapeva qualcosa del suo parto; mi ha risposto di essere nata una settimana dopo il tempo ritenuto giusto, anche se alla fine senza alcun aiuto esterno. Forse questo conflitto tra uscire di casa e rimanere riporta questa persona nel ventre materno, un posto dove ci sembra di essere al sicuro, nonostante le esigenze fisiche dicano il contrario, ma da dove dobbiamo necessariamente uscire per non morire. Si ha quindi da una parte la paura del nuovo, dall’altra un’angoscia di morte. Mi chiedo quanto lungo possa essere percepito da parte del nascituro una settimana di ritardo, nell’attesa del segnale giusto che lo porti alla nascita. Forse il tempo si ferma così tanto che il bambino ha la percezione che il posto giusto sia il guscio che lo ricopre. Deve sopprimere tutti i fermenti interiori che lo spingono a nascere, negarli, vederli come mostri cattivi che lo spingono in un canale senza uscita (demonizzazione dei desideri) e infine rinunciare perché la luce è ancora solo una speranza che in quel momento non sarà mai presente. Alla fine la luce si mostrerà, ma l’angoscia e la paura saranno già impresse nel piccolo, in un posto che tornerà a visitare tutte le volte che la vita lo porterà a dover scegliere di uscire o rimanere.

Non c’è sequenzialità in questi tipi di ricordo, visto che sono inconsci, e quindi non conta il fatto che comunque siamo riusciti a nascere; conta il momento vissuto. Solo con la consapevolezza i due momenti, la permanenza nel ventre materno e la nascita, possono essere uniti insieme e permetterci di vivere certe situazioni con più leggerezza e sicurezza di farcela.

Se io riesco a superare coscientemente un momento di stallo nel quotidiano con un’azione attiva, la fiducia che ne consegue risarcisce in parte anche la ferita del momento della nascita. Chiaramente tale ferita è collegata a tanti altri fallimenti e quindi si farà sentire in molti altri ambiti della mia vita.

In un caso come quello di questa ragazza, il dire alla persona che una via d’uscita c’è, sarebbe totalmente inutile, perché verremmo anche noi trasformati in quei mostri cattivi che spingono in un canale senza uscita. Dovremmo altresì essere uno specchio in grado di riflettere la sua luce cosicché possa con i suoi tempi seguirla e dirigersi verso l’uscita. Dovremo quindi lavorare sul desiderio, sulla fiducia e sulla volontà.

UNA PRIGIONE DI COCCOLE

Un uomo di 34 anni vive in uno stato di totale simbiosi con la madre. Non è riuscito a laurearsi, non lavora, non esce mai di casa e vive in funzione di ciò che la madre gli dice. Non ha alcuna prospettiva di vita se non quella di rendere la madre orgogliosa di lui. È in una fase di profondo amore misto a odio incontrollabile che si manifesta con il tirare in terra piatti e bicchieri, urlare e piangere. A vederlo è un bambino di 100 chili, che parla esclusivamente della madre; tutto il suo centro è spostato verso di lei. È nato di otto mesi ed è stato per un po’ di tempo in incubatrice lontano da quell’abbraccio amniotico di cui ancora aveva profondamente bisogno. È stato abbandonato dal ventre materno prima che fosse maturo e ora da quel ventre ritrovato non si vuole più staccare. Spesso questi bambini prematuri suscitano nei genitori quel senso di iperprotezione che ostacola la crescita, la fiducia in se stessi e la possibilità di avere dei sogni propri. A. de Souzenelle dice che i genitori sono le stampelle dei figli che una volta che hanno imparato a camminare da soli possono abbandonare. Nel caso in cui il genitore non ha fiducia che il figlio possa camminare da solo le stampelle diventano le gambe stesse di quest’ultimo che si ritrova a dover vivere da storpio.

Forse nel ricordo di quest’uomo il mondo è pericoloso, un bosco senza confini che lo ha strappato per sempre dal suo nido sicuro. Senza una spinta che lo rassicuri sulle sue capacità di affrontare questo mondo lui non potrà mai allontanarsi dalla “sicurezza” ritrovata.

In realtà il messaggio che tuttora arriva dalla famiglia è di non abbandonare la casa perché lì sarà sempre coccolato e protetto, mentre il mondo fuori si approfitterà della sua debolezza.

Piano piano sta emergendo quell’aggressività che lo porta a minacciare i confini che si è auto-imposto, ne ha paura e cerca di reprimerla, ma ciò non è possibile. Il suo corpo è troppo grande per essere contenuto in un utero; i suoi desideri repressi non riescono più a desiderare di essere solo l’appendice della mamma e vogliono esprimersi nelle loro reali potenzialità.

È tempo di servirci di un nuovo parto, un parto che significa distacco e, come la parola stessa suggerisce, partenza. Partire significa poter essere contenuti da un universo più grande fatto di molte più persone, possibilità e certezze. Lavorare sul lutto di una casa persa, ma un paese ritrovato.

Questa persona non Vuole più un cordone ombelicale che lo nutra, ma ha bisogno di una corda, un appiglio che lo aiuti a uscire con le proprie forze dalla sua prigione, così da trasformare quell’idea erronea che da solo non ce la farà mai.

In questo caso la sequenzialità che dovrebbe essere messa in evidenza è il fatto che è vero che è stato rapito dal ventre materno troppo presto, ma è grazie a questa tempestività del mondo esterno che è vivo. Dovrebbe reintroiettare il mondo cattivo che ha proiettato fuori di sé e cominciare a scoprire piano piano le bellezze che il mondo stesso può offrire.

IL SÉ

Il Sé in Psicosintesi è visto come l’Autore del nostro copione, colui che sceglie i compiti della vita individuale di ognuno e le parti che la personalità deve mettere in scena (R. Assagioli, Per vivere meglio, 1993) per arrivare all’auto-realizzazione.

La sofferenza stessa potrebbe essere inquadrata nel progetto del Sé, teso alla crescita e all’evoluzione della persona e quindi come dice Alberti (2008) essere un’”opportunità evolutiva” e quindi da accogliere, senza farsi travolgere e senza identificarsi.

Sicuramente il progetto di ogni persona è unico e realizzabile unicamente da essa; la scelta che si pone è quella tra l’immobilità e quindi la patologia, o il movimento e l’evoluzione. Muoversi significa disidentificarsi dal ruolo di vittima sacrificale o da quella di essere impotente e prendersi cura della propria sofferenza, accettarne la natura e provare a trasformarla in ricchezza. Tutto ciò sarà possibile facendo leva su una dimensione d’amore che porti a sciogliere quelle emozioni e quei disagi che la paura tende a cristallizzare.

L’esperienza della nascita stessa e la sofferenza che si porta dietro potrebbe già far parte del progetto del Sé. Un imprinting cellulare di soffocamento nel ventre materno potrebbe portare come scopo della vita ad esempio quello di uscire da dipendenze invischianti. Ritengo indispensabile uscire dal vittimismo, dall’idea che se abbiamo avuto un passato di sofferenza non potremo più rialzarci e dovremo giorno per giorno soccombere alla vita. Con questo non voglio minimizzare la sofferenza, anzi, ritengo che ci siano delle sofferenze così devastanti che risulta quasi impossibile vedere una via d’uscita; vorrei però trasmettere la possibilità che quella sofferenza possa essere un tentativo della Vita di riassestare il nostro cammino.

Può darsi che il nostro Sé abbia un progetto altissimo per ognuno di noi, ma ritengo fondamentale concentrarsi invece sul progetto che può essere identificato nel presente. Se io nel presente non riesco ad uscire dalla dipendenza, diventa questo il progetto per cui sono nato, fino a quando, ricostruendo la mia personalità attorno ad un nucleo più evoluto, scopro che il mio progetto è un altro.

Forse ogni giorno c’è in noi una nuova nascita, un nuovo parto; chiedersi “oggi perché sono nato?” è riportare a se stessi la responsabilità della propria vita, puntare la propria freccia verso il bersaglio più vicino e facilmente raggiungibile, aumentare così la propria stima di sé e svelare ogni giorno di più la via su cui camminiamo.

CONCLUSIONE

Non so quanto realmente sia possibile rivivere le fasi della nostra nascita con consapevolezza, ma ritengo molto importante conoscerne le difficoltà e i vari passaggi, perché possono restituirci un perché su sensazioni, emozioni e blocchi di cui non riusciamo a darci spiegazioni.

Potremmo identificare nel racconto della nostra nascita un simbolo della nostra vita, carico di tutti i disagi provati durante quel delicato momento, ma allo stesso tempo portatore della forza e della volontà che ci ha portati alla vita. Se siamo nati spontaneamente saremo in questo avvantaggiati, ma possiamo pensare ad esempio che chi è stato aiutato a nascere possa sentire dentro di sé la gratitudine verso l’altro e quindi la gioia nell’essere di aiuto al prossimo. Chi ha rischiato di soffocare stretto nel suo cordone ombelicale, può capire quanto sia importante dare respiro alle relazioni ecc…

Nel sapere cosa siamo stati in grado di superare, si può contattare la nostra forza e le nostre risorse, che potranno venirci in soccorso ogni qualvolta ne avremo bisogno.

La terapia non dovrà incentrarsi su quel periodo storico, che potrà invece servirci come motivazione ulteriore ad affrontare e superare le nostre dinamiche interiori, visto anche che superando i problemi attuali, le ferite antiche verranno in un certo senso risollevate e riconquisteranno quella dignità di cui hanno necessario bisogno.

Sapere che il senso di impotenza che sentiamo in un dato momento può essere ricollegato all’impotenza provata nel ventre materno dove non era possibile trovare una soluzione a tale impotenza, può restituirci la possibilità di essere genitori accoglienti del nostro feto interiore e riportarlo in una dimensione di potenza attraverso la consapevolezza delle nostre capacità e possibilità di trovare soluzioni che si sono sviluppate nel tempo.

È bene ricordarsi che il senso di angoscia provata nel ventre materno durante quella che secondo le ricerche di Grof è indicata come la seconda matrice, è stata necessaria a permettere il distacco e la nascita; allo stesso modo molti momenti importanti nella vita come anche il risveglio spirituale, sono preannunciati da momenti che possono ricordare l’angoscia perinatale. Assagioli (Principi e Metodi, 1973) quando parla delle crisi prodotte dal Risveglio Spirituale, ci dice che “il mutamento ha spesso inizio con un senso di insoddisfazione, di mancanza… di qualche cosa di vago e di sfuggente che egli è incapace di descrivere”.

La stessa luce che ci ha chiamati per nascere ci chiama altre volte durante la vita e tutte le nostre certezze passano in secondo piano. Possiamo scegliere se seguire quella luce o rifugiarci nell’immobilità, ma quest’ultima possibilità ha come unica strada la non nascita. Scegliere la luce non significherà una duratura felicità, ma uno stato di “gioiosa stimolazione” (Assagioli, 1973), che non sarà eterna, ma durerà un periodo più o meno lungo, perché la ritmicità dell’Universo impone sempre un equilibrio tra forze che spingono verso il cielo e forze che riportano sulla terra, ma comunque dopo tale scelta non saremo più come prima.

BIBLIOGRAFIA

Alberti, A. (2008). Psicosintesi una cura per l’anima. Firenze: L’UOMO Ed.

Assagioli, R. (1973). Principi e metodi della psicosintesi terapeutica. Roma: Ubaldini Ed.

Assagioli, R. (1977). L’atto di Volontà. Roma. Astrolabio Ed.

Caldironi, B. (2002). Dialogo sulla Psiche. Firenze: Draghi e Mizzau Ed.

Campbell, J. (2000). L’eroe dai mille volti. Parma: Ugo Guanda Ed.

Grof, S. (2006). Quando accade l’impossibile. Milano: Urra-Apogeo s.r.l.

Grof, S. (2007). L’ultimo viaggio. Milano: Urra-Apogeo s.r.l.

Rivista Italiana La Care in Perinatologia (2008). Volume 2; Numero 1

Tomatis, A. (1996) La notte uterina. Milano: Red Ed.