Il gioco della sabbia

Il gioco della sabbia (sand play therapy) può essere un valido strumento per conoscere possedere e trasformare il nostro mondo interiore. Come in un sogno l’inconscio supera la barriera posta dal guardiano della soglia e si può svelare nella consapevolezza. A differenza di un sogno dove le immagini sono prodotte dall’interno, nel gioco le figure vengono scelte tra una gamma di alternative presenti nello studio del terapeuta che possono variare da terapeuta a terapeuta. Qui l’inconscio non crea, ma riconosce ciò che gli è proprio, che siano personaggi, oggetti, simboli. Il riconoscimento ha una forte carica trasformativa, è come se vedessimo concretamente i nostri mostri, le nostre potenzialità, i nostri limiti, tutti racchiusi in un piccolo spazio che può essere visualizzato da più angolazioni e da cui possiamo quindi disidentificarsi.
Tale tecnica può essere usata sia con gli adulti che con i bambini; per questi ultimi è molto più semplice entrare in un mondo di gioco, fantasia e magia, terreno ideale per far sì che l’inconscio si sveli. L’adulto dovrà reimparare a giocare, lasciarsi andare e farsi spingere dalla curiosità.
Il paesaggio finito è un mondo nascosto che si svela, un messaggio diretto dall’inconscio che ci mostra i suoi meccanismi, le credenze distruttive, le difese, gli echi del passato. Possiamo interpretare il tutto o lasciare che le voci inconsce agiscano in allineamento con il Sé e trasformino il paesaggio nelle sabbie successive e conseguentemente la realtà del paziente. Come i sogni svelano i cambiamenti, così sabbie diverse mostrano il percorso, l’evoluzione o l’involuzione di coloro che le fanno. Dall’adolescenza la cointerpretazione può essere molto utile, perché il paesaggio nel parlarne comincia a prendere forma, comincia a narrare una storia, la storia più importante, quella vivida e vera del paziente.
Con i bambini più piccoli può essere utile giocare, muovere i personaggi, farli parlare, individuare i buoni e i cattivi, trovare le strategie per sconfiggere i mostri e trovare gli eroi.
La sabbiera
Gli oggetti e i figurini all’interno della stanza, possono essere utilizzati all’interno di una cassetta con il fondo blu e contenente sabbia che diventa, per chi utilizza la sand play therapy, parte del suo setting. La sabbiera ha delle dimensioni prestabilite (cm. 57x72x7) che corrispondono al “campo visivo di un bambino posto a 50 cm. da essa” (F. Montecchi, 1993).
Il paziente può creare ciò che vuole all’interno della sabbiera, può sperimentarsi in una sorta di disegno tridimensionale che non necessita delle capacità di un grande pittore, ma solo della facoltà di lasciarsi andare in un vero e proprio gioco. Il setting viene ora “arricchito” di un elemento nuovo, la sabbiera, una sorta di vaso terapeutico junghiano, nel quale il processo alchemico di trasformazione delle componenti interne, può avere luogo. La sabbiera è simbolo della possibilità del terapeuta di farsi contenitore che accoglie il mondo interno di colui che ha difronte.
La sabbiera diventa uno spazio di silenzio dove si può già intravedere il movimento di un qualcosa che avverrà, ma di cui ancora non conosciamo i colori. È il silenzio del mondo che si può percepire subito prima che qualcosa di importante accada.
All’interno di questa cassetta possono trovare spazio anche i contenuti distruttivi, che spesso sono molto difficili da esprimere.
È importante sottolineare che la sabbiera non può e non potrebbe mai sostituire uno dei suoi interpreti, ovvero il paziente, il terapeuta e la relazione che si crea tra i due. Non è mai la tecnica che fa la terapia, ma ciò che di invisibile unisce le anime di chi si mette in gioco.
Tecnicizzare ciò che accade è riportare la relazione a un livello di giudizio, spostare un momento alchemico di trasformazione, in una sorta di fredda manipolazione del profondo.
Una caratteristica molto importante della sabbiera è quella di porre dei limiti, rappresentati dai bordi della stessa.
Il limite ci dà il confine entro cui si può sbizzarrire la nostra creatività. Definisce il nostro territorio, quello oltre il quale non possiamo andare, ma dove al suo interno possiamo costruire infinite storie. Chi compra un campo, la prima cosa che fa è delimitare il confine, definire ciò che gli appartiene e ciò che non gli appartiene. Capita spesso di vedere giardini confinanti molto diversi tra loro, l’uno ben curato e pieno di piante particolari, l’altro lasciato andare e pieno di sterpaglie e piante che soffocano il territorio. La differenza non sta nel limite, ma in cosa siamo in grado di fare al suo interno. Se disprezziamo i nostri confini non ameremo mai il nostro campo, perché penseremo solo ad ottenere quello che non possiamo avere, se non chiariamo bene i nostri confini e li restringiamo, ci perderemo una grande fetta delle nostre possibilità.
Persone con varie problematiche spesso non riescono a stare dentro i confini della sabbiera e mettono personaggi fuori di essa, come rappresentassero una parte di loro scissa. Più che il paziente, con i suoi tempi, riesce ad avvicinare questa parte al confine, più che può renderla visibile al campo di coscienza, così conoscerla, possederla e trasformarla.
Pur essendo molto limitata nella grandezza la sabbiera, non esisterà mai un paesaggio al suo interno uguale a un altro. Le storie che possono essere raccontate al suo interno sono infinite, ciò che prende vita a paesaggio ultimato ha un’anima sempre diversa dal paesaggio successivo. Spesso i significati a cui arriviamo sono simili tra due sabbie della stessa persona fatte a distanza di tempo breve, ma c’è sempre un elemento nuovo che ci dà il movimento verso una direzione da scoprire.

Suddividendo la sabbiera in fasce orizzontali abbiamo la parte superiore come sede delle aspirazioni, quella centrale la parte che delinea i motivi che determinano le azioni del momento, mentre la parte inferiore rappresenta le esperienze che l’io sta affrontando (F. Montecchi, 1993).
Nel mio modo di lavorare spesso immagino la sabbiera come un ovoide assagioliano, nel quale l’inconscio inferiore si trova nella parte sinistra rispetto al paziente, il medio nella parte centrale, l’inconscio superiore a destra e l’inconscio collettivo intorno nella stanza, o nei libri che ripropongono il significato archetipico dei personaggi che sono protagonisti della scena. Di ogni personaggio della sabbia cercheremo di scoprire tutto ciò che rappresenta, cercheremo di scovare i segreti che si celano dietro la sua anima, compresi i valori universali a cui si ispira. Questo porterà ad un ampliamento della consapevolezza e quindi alla possibilità di conoscere meglio quello spicchio di mondo che il personaggio in questione occupa.
L’interpretazione dovrebbe però essere il meno schematico possibile, perché gli schematismi impediscono il fluire dell’intuizione e la possibilità di un ascolto autentico dell’altro. È più opportuno lavorare su una cointerpretazione che permetta al paziente di arrivare con i suoi tempi a confrontarsi con i suoi vissuti interiori.
Il gioco della sabbia permette al paziente un tipo di espressione ancestrale, primaria, non verbale, attraverso la quale è possibile “dare forma a significati non ancora conosciuti o non completamente colti né dal paziente né dal terapeuta” (Joel Ryce-Menuhin, 1992). Il fine di ogni paesaggio creato è quello di scorgere nel contenuto inconscio proiettato un simbolo (Joel Ryce-Menuhin, 1992) che possa unire ciò che nel vissuto soggettivo è stato separato. E’ importante non solo individuare tali simboli, ma identificarne anche il significato per poter poi procedere ad un lavoro di rielaborazione e sintesi.
Le varie sabbie possono permettere al cliente di specchiarsi, di vedere la loro vita dall’alto e di amplificare la comprensione che essi hanno di loro stessi attraverso l’espressione di pensieri e sentimenti che spesso il linguaggio non è in grado di manifestare (Disidentificazione). Donfrancesco e Venier (2007) sostengono che le sabbie creino un vocabolario di parole nuove e “tridimensionali” che raccontano la storia dei pazienti, ed è proprio dall’inizio di queste storie che è possibile intravedere un finale che sia il più possibile vicino al Progetto di colui che crea.
La sabbia
La sabbia, secondo Morel (2006) è “simbolo dell’infinitamente piccolo ed è un costante richiamo all’umiltà che deve informare le azioni umane”. Umiltà deriva da humus, terra e il contatto del paziente con la sabbia ci dà proprio l’idea del suo contatto con la terra, con la vita, la sua voglia di buttarsi, di sporcarsi le mani, di poter giocare. Ci ricorda Alberti (2007), che l’umiltà “permette all’uomo di conservare la semplicità e la purezza del cuore e della mente, l’innocenza interiore e con essa una fiduciosa visione positiva della vita”.
Il rapporto del paziente con la sabbia è tutt’altro che scontato. C’è chi la tocca delicatamente e la guarda con ammirazione, chi ne ha paura e non la sfiora neanche, chi la disprezza e la tira da tutte le parti o la schiaccia con violenza. Con il tempo anche il rapporto con la sabbia spesso cambia, avviene una graduale scoperta, nasce una sorta d’amicizia, che si nutre di un ritrovato senso dell’humus. Nel ricontattare la sabbia si può riscoprire il piacere di apprezzare le piccole cose, il piacere di essere frammenti infinitesimi dell’infinito, ci si può ricollegare al calore del ventre materno che ricomincia a cullare il nostro desiderio di amare ed essere amati. È molto importante che questa “amicizia” nasca da sola con il tempo, senza cercare in alcun modo di forzarla.
La Kalff (1966) sottolinea il fatto che la sabbia favorisce il bisogno di contattare le proprie origini e può rappresentare il rapporto che il paziente ha con il proprio corpo. Quest’ultimo punto è veramente importante anche da un punto di vista diagnostico, perché, soprattutto nella società attuale dove il corpo è posto al centro, il rapporto con esso ci dà una buona chiave di lettura sul disagio individuale. È molto chiara qui la differenza tra chi ha un buon rapporto con il proprio corpo, chi continua a stupirsene e ha voglia di scoprirlo ancora, chi lo disprezza, o chi lo rifiuta. Forse qualcuno non è stato toccato a dovere in fasi molto precoci dello sviluppo, o altri sono stati toccati troppo. Certo è che poter riscoprire il piacere di una carezza, porta, nell’anima di chi ha paura, una visione della vita molto diversa.
I personaggi
I materiali utilizzabili non appartengono ad uno standard prefissato, ma sono espressione del temperamento del terapeuta. “ Gli oggetti disponibili sono oggetti dell’analista, visibili, manipolabili e condivisi. Questa messa in comune di oggetti propri accompagna e favorisce una dimensione nella quale anche il paziente può aprirsi alla propria intimità e metterla in campo, iniziare a condividerla, guardarla e lasciare che sia guardata dall’altro” ( A. Donfrancesco, M. Venier, 2007). Il paziente “gioca” con qualcosa che il terapeuta ha raccolto negli anni, qualcosa che gli è in qualche modo proprio e affine.
Spesso troviamo personaggi comuni, animali, piante, alberi, conchiglie, personaggi storici e molto altro. A differenza delle tecniche immaginative, ciò che viene scelto dal paziente è già presente nello studio e non è possibile utilizzare qualcosa che non c’è, come sarebbe invece possibile attraverso l’immaginazione. In questo caso non è possibile far emergere un’immagine dall’inconscio, ma l’inconscio stesso riconosce parti di sé attraverso i personaggi o figurini scelti. A mano a mano che il paesaggio prende forma, la parte che dirige e sceglie consapevolmente si allenta e l’inconscio comincia a dare corpo alle sue idee e intuizioni. Capita spesso che il paesaggio finale sia molto diverso dalla sua idea iniziale, come se una nuova “ditta” ne avesse preso l’appalto con un nuovo progetto.
Ogni figurino vive delle emozioni, sensazioni, desideri, di colui che lo prende e lo pone nella sabbiera. Se è scelto mentalmente avrà un grande impatto mentale, ma sarà scarno delle altre funzioni. Starà all’interazione terapeuta paziente cercare di far incarnare il figurino attraverso la conoscenza dell’impatto che esso ha a livello delle altre funzioni psichiche. Potremo quindi approfondire la dimensione emotiva che il personaggio suscita, che immagini richiama, quali impulsi o desideri esso ha, le intuizioni che evoca, le sensazioni che suscita o che possiede.
Caso clinico

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Camilla (nome fittizio) è una ragazza di 28 anni che ha superato un periodo di attacchi di panico insorti dopo la fine della relazione con il suo ragazzo, un anno e mezzo prima, durata nove anni. Ha un lavoro che la soddisfa molto e grazie al quale guadagna molto bene; è un lavoro molto dinamico che la porta a stare sempre fuori città tanto che si è da poco trasferita a Bologna. E’ un periodo in cui si sente ossessionata dall’idea che l’ex ragazzo possa avere una vita sua, che possa trovare un’altra persona meglio di lei, che la tradisca, che diventi quello che lei aveva sempre sognato che lui fosse; è una fase di estrema idealizzazione del suo rapporto finito; nonostante l’evidenza dica il contrario sembra per Camilla che Lorenzo (il suo ex), sia un principe azzurro.
La sabbia di Camilla evidenzia in prima istanza un paesaggio addormentato dove spiccano e dominano la scena due personaggi principali, la strega e l’orologio. Quest’ultimo è in una posizione molto particolare perché si trova in mezzo a un laghetto. Camilla mi dice che molte persone vengono apposta in quel paese a vedere quel magnifico orologio, anche se nessuno si accorge che è un orologio, nessuno sente il suono della sua campana (eccetto la strega) e nessuno guarda il movimento delle sue lancette; non è riconosciuto nelle sue funzioni, ma è solo ammirato per la sua bellezza che in mezzo al lago non può essere realmente toccata e vissuta.
La strega invece vive nel tendone e non può uscire da lì se non per due minuti ogni qualvolta l’orologio segna un’ora e in quei minuti cerca di afferrare i bambini per mangiarli.
Per non essere catturati i bambini si fingono morti, si addormentano aspettando che prima o poi la strega scompaia definitivamente dal loro paese.
Il cigno si trova tra la strega e i bambini e cerca con le sue ali di nascondere questi ultimi per non farli divorare.
In basso a destra c’è una casa al cui interno Camilla mette un bambino in tenuta da judo; il bambino è imprigionato lì dentro e nonostante sia l’unico a poter sconfiggere la strega, non può uscire.
Durante i nostri incontri abbiamo inizialmente analizzato la figura dell’orologio: si trova in mezzo al lago come fosse su un piedistallo, ammirato da tutti, ma senza alcun contatto reale con il mondo esterno; c’è una subpersonalità di Camilla che vede il mondo con gli occhi dell’orologio. Tutto sembra sia cominciato quando era piccola e i genitori, quasi contemporaneamente alla sua nascita, adottarono una bambina. La madre si sentiva in dovere di carezzare e coccolare maggiormente la figlia adottiva, dicendo a Camilla che lei era consapevole del suo amore e aveva meno bisogno di attenzioni rispetto alla sorella. Mi dice che c’era quasi una formula ossessiva per le carezze, ovvero ogni carezza che lei riceveva, la sorella ne riceveva tre; la stessa attenzione per i numeri la ritroviamo nella strega che compare meticolosamente solo in alcuni momenti scanditi dall’orologio. A seguito di questo comportamento ambiguo della madre, Camilla ha sempre pensato di essere molto amata, ma questo amore non lo ha mai vissuto con il corpo e con il cuore; si è sentita molto ammirata, la bambina perfetta da guardare ma da non toccare e questo l’ha portata a mettersi in piedi su un piedistallo di cristallo, bello da guardare ma difficile da scavalcare senza essere rotto. Tuttora ritiene di avere molti rapporti professionali, ma trova difficoltà ad avere relazioni di amicizia profonde, dove la parola venga sostituita da una genuina carezza, dove l’ammirazione verso la sua bellezza e bravura lavorativa si trasformi in uno scambio reciproco di emozioni e sentimenti.
La strega è vista da Camilla come la sua parte ossessiva, che oltre a entrare prepotentemente sulla scena, addormenta piano piano il paesaggio.
La strega ha bisogno di nutrire la sua parte ferita, ha necessità di riempire il tendone vuoto dietro di sé e lo può fare solo comparendo sulla scena con aggressività e irruenza, quella stessa aggressività e irruenza con cui si scaglia contro le insicurezze di Camilla, le ingigantisce e le divora. Così Camilla lascia il centro del suo mondo alla strega, aggredisce chi secondo lei ha provocato il suo disagio, pugnala se stessa continuamente per quello che non è riuscita a fare, si sente inamabile e sola nel suo tendone interiore. La sua priorità diventa ora la vendetta contro l’uomo che, pur secondo lei essendo molto inferiore, l’ha fatta soffrire; vorrebbe farlo sparire, divorarlo e ucciderlo, ma facendo così sente che sta cercando di divorare e uccidere una parte di sé, i bambini addormentati che ancora hanno voglia di meravigliarsi della vita e dell’amore.
Sono proprio questi ultimi la parte da svegliare, da riportare alla vita, una parte che ha preferito addormentarsi, quasi ipnotizzata da un orologio magico su un piedistallo, pur di non sentire le ferite che la scarsità di contatto e di attenzione le ha provocato. Sono parti di luce che lei riconosce dentro di sé, le vede nel suo romanticismo, la voglia di giocare, di vivere, di stare in mezzo agli altri, di stupirsi del fluire spontaneo della vita. È una parte però sommersa, ferita, nascosta dietro un amaro sorriso che la porta a sentirsi sempre ben accetta, ma mai amata veramente; un sorriso che la mette sul piedistallo, ma le impedisce di vivere e la obbliga ad essere sempre un cigno, bello, gonfio, che non ha bisogno degli altri, ma solo di specchiarsi nella sua bellezza.
Dentro la casa, dentro il suo cuore, si muove qualcosa: un bambino vestito da judo che si è salvato dall’orologio e dalla strega e che sta cercando la chiave giusta per uscire dalla sua prigione e svegliare i piccoli amichetti, come fa il genitore con i suoi bambini che, immersi in un brutto incubo, rivedono la luce cullati dal dolce risveglio di una mano amica.
Camilla ha bisogno di riscoprire il suo essere profondamente amabile, ha bisogno di accarezzarsi, ha bisogno di risvegliare la sua autenticità, attraverso una maggior fiducia in se stessa e una maggior capacità di sentirsi degna di vivere la sua libertà

Conclusione
Il gioco della sabbia è sicuramente uno strumento diagnostico e terapeutico molto valido, ma vorrei sottolineare che esso è soltanto uno strumento e di per sé non ha alcun potere terapeutico; è la relazione che cura, lo strumento può essere visto come le righe di un quaderno su cui scriviamo la nostra vita. Ci aiutano a scrivere dritto, in modo più chiaro, con le giuste distanze e ci porta ordine nel disordine, ma non basta un buon quaderno per scrivere una bella poesia.

Bibliografia

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