Coazione a ripetere

Introduzione

La coazione a ripetere è un fenomeno di origine inconscia a seguito del quale l’individuo si mette attivamente in situazioni scomode e dannose, ripetendo vecchie esperienze, senza tuttavia avere la consapevolezza delle motivazioni.

Secondo Freud tale termine indica la tendenza a riprodurre rigidamente situazioni infantili dimenticate, portando un processo inconscio e passivo ad essere vissuto come fosse un atto volontario attivo (Al di là del principio del piacere, 1920).

Lo stesso autore inquadra la coazione a ripetere come un tentativo inconscio di rimettere in scena un evento passato e superare un trauma infantile, interrompendo così “il perpetuo ritorno dell’uguale”.

È proprio per questo forse che il bambino tende a farsi raccontare in continuazione la stessa storia o la stessa favola, ovvero per cercare di esorcizzare eventi del passato che gli hanno procurato ansie, paure o sofferenze.

Nel 1920 Freud notò che il suo nipotino di 18 mesi (il piccolo Hans) si intratteneva spesso a giocare con lo stesso gioco, ovvero un rocchetto che lanciava lontano fino a farlo sparire sotto il letto, per poi recuperarlo. Questo gioco per Freud era motivato dalla coazione a ripetere, che tramite il rocchetto portava a far rivivere innumerevoli volte l’allontanamento della madre, l’angoscia che ne derivava e la speranza del ritorno simboleggiata dal ritrovamento dello stesso.

La coazione a ripetere è un meccanismo di difesa utile per gestire situazioni molto angoscianti, che minacciano durante l’infanzia l’integrità e l’identità del bambino, ma allo stesso tempo diventa molto dannoso se perdura nella vita di un individuo per troppo tempo, perché ingabbia la persona stessa in un circolo vizioso da cui difficilmente potrà liberarsi.

Questo lavoro ha l’intento di ipotizzare una possibile spiegazione al meccanismo della coazione a ripetere, attraverso una breve rassegna sui bisogni dell’uomo, le antiche ferite ancora aperte e il progetto del Sé, che spinge costantemente verso la sua manifestazione. Mi concentrerò maggiormente sulle relazioni significative del bambino e sui futuri rapporti di coppia.

Il bambino bisognoso

La relazione figura come la principale via di evoluzione e sviluppo dell’individuo sin dalle prime fasi della vita, così come il sostegno fisiologico rappresenta la via indispensabile alla sopravvivenza in un momento in cui il bambino, appena nato, è totalmente dipendente dal proprio caregiver.

Essendo il tatto il primo senso a svilupparsi nell’embrione umano, sembra che un contatto fisico amorevole sia uno dei principali bisogni del bambino, “toccare significa agire l’amore attraverso le mani” (Baldaro Verde, 1992), e sia uomo, sia donna hanno un grande bisogno di essere amati.

La connessione empatica (Firman e Gila, 2009), ovvero lo stabilire un rapporto empatico con il bambino, è centrale nella prima fase di sviluppo, perché non solo permette di esaudire le richieste del piccolo garantendone la sopravvivenza, ma porta il bambino a riconoscersi nel suo essere vivo, allontanando il terrore della non esistenza.

Winnicott parla di mirroring a proposito della capacità del genitore di guardare il bambino riconoscendone l’unicità e l’individualità, contrapponendo questo concetto al genitore o caregiver che proietta sul bambino i propri bisogni, le proprie fantasie e esigenze, e che porta il piccolo a diventare il riflesso stesso del genitore e non, usando le parole di Hillman, la ghianda che si farà quercia.

Il bisogno secondo ciò che scrive Baldaro Verde è una necessità assoluta, inderogabile, di procurarsi ciò che è ritenuto indispensabile alla propria sopravvivenza.

Maslow (1954) sostiene che i bisogni psicologici (affettivi e cognitivi), hanno la stessa forza e motivazione dei bisogni fisiologici e si dispongono gerarchicamente nei primi sei anni di vita. La scala dei bisogni è internazionalmente conosciuta come “La piramide di Maslow”.

I livelli di bisogno concepiti sono:

  1. Bisogni fisiologici (fame, sete, ecc.)
  2. Bisogni di salvezza, protezione e sicurezza
  3. Bisogni di appartenenza
  4. Bisogni di stima
  5. Bisogni di realizzazione di sé (realizzando la propria identità e le proprie aspettative e occupando una posizione soddisfacente nel gruppo sociale).

Il bisogno più profondo, secondo Firman e Gila, è quello di essere favoriti e non ostacolati nella relazione tra l’Io e il Sé, la frattura della quale porta a quella che gli stessi autori chiamano ferita originaria del non essere, dove possiamo inserire tutti quei “diritti dell’anima” che sono stati violati durante l’esistenza nelle varie fasi di sviluppo, quali ad esempio il diritto di esistere, di avere una forma, di essere libero, di potersi esprimere e manifestare, di avere bisogno, di essere felici, di vedere ed essere visti, di affermare se stessi, di essere contenuti e contenere, di essere amati, di essere vulnerabili e di ricevere verità.

La relazione con un adulto di riferimento empatico risulta essere la base per un armonico fluire dell’unicità di un individuo, cosa che però risulta molto complessa e difficoltosa, visti i molti bisogni che gli adulti stessi trasferiscono e proiettano sul bambino, e visti i molti indottrinamenti educativi che impediscono lo sviluppo naturale e intuitivo di una relazione significativa tra genitori e figli.

Il bambino ha come prime necessità quelle di essere visto, riconosciuto e rispettato in ogni sua parte, perché ogni parte prende vita e esiste nel momento in cui l’altro la vede, la riconosce, la rispetta e quindi ne favorisce un rispecchiamento autentico; così il bambino non riconosciuto in alcune sue parti le atrofizza nell’attesa che qualcuno possa riconoscerle e fargliele sperimentare.

Centri unificatori

Assagioli (1965) parla di contesti interni e esterni che mediano la relazione tra L’Io e il Sé, e ne favoriscono o ne ostacolano la piena espressione. Tali contesti vengono indicati con il nome di Centri Unificatori che possono essere interni, corrispondenti a una forza interna della persona, o esterni, corrispondenti a qualcuno al di fuori della persona stessa, ma che influisce molto sulla sua crescita. Il centro unificatore interno viene sperimentato come una presenza interna reale, come un genitore o una guida, può includere i valori e le credenze dell’individuo, mediati dal contesto familiare, dalla cultura e dalla società, ovvero dai centri esterni. Centri unificatori non rispondenti al bisogno di empatia dell’individuo, portano ad interrompere l’armonico fluire della relazione Io-Sé, e provocano la minaccia del non essere, la ferita primaria.

Se l’altro fallisce nel suo essere empatico con il piccolo la relazione Io-Sé di quest’ultimo viene disturbata e l’esistenza minacciata; così, secondo Firman e Gila, il bambino è costretto a scindere l’esperienza del centro unificatore carente in due parti distinte, una positiva e una negativa. Dalla parte positiva, formatasi dalla relazione empatica, il bambino riceve amore e accettazione, mentre dalla parte negativa, formatasi dalla relazione non empatica, riceve odio e rifiuto.

Ciò che risulta inaccettabile e cattivo viene relegato nell’inconscio inferiore, che da una parte protegge dalla minaccia del non essere, ma dall’altra fa sentire la sua voce ogni qualvolta l’individuo ricade sotto l’influsso del centro unificatore negativo che lo fa sentire cattivo, indegno e odiato, facendolo così assumere un’identità negativa (personalità negativa). La connessione al centro positivo porta ad assumere un’identità positiva, ovvero l’individuo si sente buono, degno e amato (personalità positiva).

Tuttavia anche l’esperienza transpersonale è, dall’anima ferita, vissuta come insostenibile e vicina al non essere e relegata nell’inconscio superiore; si ha quindi un’ombra positiva e una negativa, dalle quali scappiamo, per la paura del non essere. La contemporanea loro esistenza fa sì però che ad ogni “mostro” nato nell’inconscio inferiore, nasca un “eroe”, nell’inconscio superiore. L’integrazione dei due aspetti, mostro e eroe può portare alla guarigione, anche se il cammino risulta molto lungo e complesso, perché mostro e eroe sono entità difficili da conoscere, nascondono grosse ferite o grosse potenzialità (difficilmente raggiungibili nel qui e ora e quindi vissute come illusioni) che una personalità senza centralità autentica non può sostenere.

Fino a quando questi due settori inconsci opereranno in modo indipendente, la ferita del non essere non emergerà nella sua interezza. Così chiunque potrà ora identificarsi con il centro positivo, ora con quello negativo senza rischiare di perdere la propria identità.

Il bambino con il proprio centro relegato nell’inconscio negativo, accetterà come normale la sua esperienza di rifiuto e facilmente cadrà in relazioni, sia come vittima che carnefice, che riproporranno il tema inconscio. Stesso dicasi di chi sposterà il suo centro nell’inconscio superiore, dove l’esperienza dell’”’Universale” allontanerà l’individuo dalla dualità, dal rapporto e dalla relazione con il mondo e lo avvicinerà comunque al non essere.

Firman e Gila parlano anche di un centro unificatore di sopravvivenza, che si forma e si sviluppa quando, per evitare l’annichilimento, diventiamo, o meglio siamo costretti a diventare, ciò che ci viene richiesto (Falso Sé); così l’individuo nasconde il vero sé per ottenere un’identità che sia apprezzata e soprattutto accettata.

I due autori parlano anche di trance familiare, che indica l’essere talmente identificati nel ruolo familiare, da relegare nell’inconscio importanti aspetti della propria esperienza. Capita spesso di sentire persone che parlano della loro famiglia come fossero dischi rotti, ripetendo stereotipamente parole di eccessivo apprezzamento nei confronti di genitori che forse hanno amato tantissimo i propri figli, ma a un prezzo per i figli stessi molto elevato.

Madri bisognose

Raramente accade che il bambino nasca in un ambiente totalmente empatico e attento ai suoi bisogni; capita più spesso che bisogni e desideri dei genitori contrastino con quelli dei figli e che siano messi in primo piano, portando i bambini a doversi adattare a situazioni non proprio idilliache.

Vi sono, secondo il punto di vista di Baldaro Verde, due tipi principali di madri che racchiudono la molteplicità dell’universo materno, ovvero la madre adulta che protegge e aiuta e la madre bambina centrata sui propri bisogni.

La madre adulta tende ad ascoltare empaticamente il figlio postponendo i propri bisogni a quelli di quest’ultimo; il bambino potrà così sentirsi accolto, accettato e protetto, e svilupperà una relazione con il Sé vicina all’autenticità, iniziando così nel migliore dei modi il proprio cammino evolutivo.

Viceversa la madre bambina risulterà molto lontana dai bisogni reali del bambino e si muoverà nei confronti del figlio, mirando sempre, in ultima analisi, a soddisfare le proprie mancanze.

In mezzo a questi due estremi c’è la molteplicità umana, tutte quelle madri che sono sì un po’ adulte, ma anche un po’ bambine, dove l’ago della bilancia verso l’uno o l’altro polo favorirà o impedirà lo sviluppo dei reali talenti del loro piccolo.

Spesso la madre “buona” viene confusa con la madre oblativa-sacrificale, che annulla la propria vita identificandosi totalmente con quella del figlio, su cui viene addossato il grande peso della felicità della madre stessa. Questa situazione creerà enormi difficoltà a lasciare la madre sola e devastanti sensi di colpa ogni qualvolta lei soffrirà, perché tutto sarà sempre ricondotto alle manchevolezze del figlio nei riguardi di colei che ha sacrificato la propria felicità per il suo bambino.

Una madre così descritta sarà inizialmente vissuta come archetipo della Madre Onnipotente, sempre presente, vigile, pronta ad esaudire ogni desiderio del bambino, il quale in età adulta potrà ricercare un partner “lampada di Aladino”, che appaghi tutto ciò che desidera e porterà al mantenimento della relazione materna. Crederà di poter gestire situazioni in realtà non gestibili e tenderà a mettersi sempre nelle stesse situazioni, “imputando i propri insuccessi a un destino avverso” (coazione a ripetere)(Baldaro Verde, 1992).

Le donne che sacrificano il loro essere donne per essere madri, trasmetteranno alle figlie femmine un’idea negativa del maschile, utile solo a renderle madri, cosa che potrà perdurare per molte generazioni.

Se invece il bambino vivrà situazioni di frustrazione reiterate e ostacoli ai propri bisogni, cercherà nel partner un “appoggio rispondente all’archetipo materno o paterno della madre o del padre desiderato”, oppure “si sceglierà un partner con caratteristiche simili a quelle del genitore negativo con l’illusione di riuscire, cosa che non riuscì in età infantile, a farlo diventare come lo desiderava”(Baldaro Verde, 1992).

Il bambino cresciuto da una madre (o padre) bambina, sarà costretto a sviluppare una personalità di sopravvivenza, retta e guidata da un centro unificatore di sopravvivenza. Diventerà così quello che la madre (o padre) vuole che sia, dovrà nascondere la propria essenza per non rischiare di perdere quel rapporto privilegiato con il genitore che nelle prime fasi di vita corrisponde all’esistenza stessa.

Una futura madre, assai prima del concepimento, immagina come sarà suo figlio, i suoi tratti fisici, la sua intelligenza e prontezza fisica, la sua unicità che lo porterà ad essere ammirato da tutti, riferendosi all’archetipo di figlio ideale insito in lei. Difficilmente il bambino generato avrà le caratteristiche sperate e da qui la madre potrà rifiutarlo, cercare di modellarlo come vorrebbe che fosse o accettarlo per come è.

Il bambino rifiutato sarà spinto a cercare una partner simile alla madre che possa accettarlo per come è, ma tenderà ripetitivamente a trovare invece persone che finiranno per rifiutarlo e riconfermare l’antico rifiuto.

Il bambino modellato dalla madre sarà invece guidato nelle scelte dal Falso Sé che lo porterà a doversi continuamente trasformare e plasmare per accondiscendere alle richieste dell’altro e poter così essere amato; confonderà i suoi desideri più profondi con quelli dell’altro e si allontanerà sempre più dal suo centro, dalle sue esigenze e dai suoi sogni.

Altro tipo di madre è la cosiddetta (Baldaro Verde, 1992) “Afrodite”, una madre bellissima, desiderata, ma mai posseduta. Sarà fredda, distaccata, poco presente e con scarsa propensione al contatto fisico, cosa, come detto in precedenza, fondamentale per il bambino, che ha bisogno che il suo corpo sia riconosciuto dalla madre attraverso il contatto, in modo da poterlo a sua volta accettare e amare. Da adulto il bambino cresciuto in queste condizioni tenderà a cercare partner bellissime, simili alla madre, illudendosi di “possederle”; il ricordo straziante dell’antico rifiuto di totale intimità con la madre (rifiuto del contatto), lo porterà a sentire la minaccia dell’abbandono e conseguentemente a non coinvolgersi nel rapporto, finendo per ripetere l’antico destino di essere nuovamente abbandonato.

La figura della madre, utilizzando lo schema di Baldaro Verde, si pone lungo un continuum che va dalla fata alla strega; la fata rappresenta la genitrice sempre presente, onnipotente, che esaudisce tutti i bisogni del figlio, offre talismani che gli permetteranno di affrontare ogni difficoltà, invischiando il bambino verso una totale dipendenza; la strega invece rappresenta la madre che divora il figlio, cerca di trasformarlo per rispondere ai propri bisogni, lo tiene in una gabbia di ferro, cercando di farlo ingrassare per poi divorarlo nel momento in cui il peso sarà quello giusto ( madre sacrificale).

La madre-donna è invece in grado di mettere al primo posto i bisogni del figlio, senza per questo rinfacciare i sacrifici fatti, e pone ostacoli al bambino adeguati alla sua età e al suo grado di resistenza alla frustrazione.

I figli hanno estremo bisogno dello scudo e della protezione materna, ma il fine vero della crescita è il distacco dalla madre stessa. Questo porta a doversi confrontare con difficoltà molto grandi, dovute spesso al fatto che la madre cerca di impedire in tutti i modi questo distacco. Il bambino cresce spesso all’interno di gabbie d’oro, estremamente sicure e appaganti che però nascondono la loro essenza, ovvero quella di imprigionarli. Il tentativo di uscire da queste gabbie verrà fatto più volte con la paura e l’insicurezza dell’ignoto, ma sensi di colpa e cordoni ombelicali non tagliati riporteranno il figliol prodigo a casa. Sarà un continuo lottare tra dipendenza e voglia di indipendenza e, nonostante la rabbia divorerà i fallaci tentativi di fuga, l’indipendenza sarà vista come una chimera, fino a quando il “piccolo” imparerà ad abitare la propria casa e a prendersi la responsabilità di guidare la propria vita.

Padri bisognosi

La figura del padre permette al bambino di conoscere ed apprezzare la propria identità; Bettelheim (1978) afferma che il bambino comincia a sentirsi una persona, un partner importante e significativo in una relazione umana, quando comincia a stabilire rapporti con il padre.

Nella disamina di Baldaro Verde anche il padre sta su un continuum che va stavolta dall’essere mago all’essere orco. Il padre mago è un genitore visto come onnipotente, con un buon lavoro, che offre ai figli esempio e consigli, agevola la loro strada utilizzando la propria influenza, ma non richiede loro di seguire le sue scelte. È un padre “perfetto” che però spesso manca di presenza, ma compare solo nei momenti di bisogno, quando il figlio lo chiama con la sua bacchetta magica. È quindi un po’ etereo, mai oppositivo, che è fermamente presente solo quando sono da fare delle scelte, momenti nei quali si trasforma in oracolo.

Nella parte centrale del continuum si inserisce il padre uomo che condivide con la moglie la responsabilità dell’educazione dei figli. È un padre che offre ai propri figli la spada per affrontare la vita, il coraggio, la fiducia di base e gli strumenti indispensabili per la crescita personale.

L’orco è un personaggio fiabesco che si nutre di carne umana e principalmente di quella dei bambini, quei bambini che alla fine della storia scoprirà essere le sue figlie; è rappresentato generalmente come un gigante muscoloso con una grossa pancia che ha bisogno di essere costantemente riempita ed ha spesso un grande bastone in mano, che rappresenta quel potere che non riesce ad avere e che vorrebbe in qualche modo gli fosse riconosciuto.

Ha tanta rabbia e tanto odio dentro tanto da non riuscire ad essere empatico con le sue vittime che mangerà senza pensarci neanche un attimo e quando le sue vittime si ribelleranno e gli daranno in pasto le sue stesse figlie, invece di prendersela con se stesso, cercherà di scovarle e ucciderle.

L’orco impedirà ai bambini di crescere perché così facendo manterrà il suo potere su di essi; li divorerà quando ancora non avranno chiari i loro sogni, i loro desideri, i loro diritti, cosicché vivranno in uno stato simbiotico totale con chi li ha generati e che ora li sta masticando.

Nella storia di Puccettino scritta da Collodi i bambini si rifugiano nella casa dell’Orco perché terrorizzati dall’idea di essere sbranati dai lupi durante la notte; sono ben consapevoli che l’Orco non li risparmierà, ma preferiscono la certezza di quella morte piuttosto che rischiare di morire in un territorio oscuro come è il bosco.

Allo stesso modo la persona posseduta dall’Orco preferirà morire nella sua pancia, piuttosto che vivere nell’incertezza, nel rischio e nella possibilità di dare o meno un senso alla sua vita; sarà una persona timorosa dei fallimenti, quanto dei successi e per questo passerà gran parte della vita perdendo tempo alla ricerca di qualcuno che l’accudisca e la protegga; trasformerà la naturale tendenza umana alla curiosità in una paura per ciò che non conosce e non può controllare, sentendosi erroneamente sicuro che “l’Orco” che lo ospita lo amerà incondizionatamente e lo proteggerà sempre.

I figli (soprattutto figlie) dell’orco vivranno nell’erronea certezza che l’amore corrisponde all’essere posseduti e divorati e potranno vivere le future relazioni con i propri partner ricercando nell’altro il possesso, un partner padrone, maschilista e conservatore.

A loro volta i figli maschi potranno prendere ad esempio lo stereotipo paterno e comportarsi da orco con le proprie partner.

Il padre seduttivo, che ricerca l’approvazione e l’ammirazione della figlia a tutti i costi, la legherà a sé per sempre, perché il suo coinvolgimento affettivo con lei sarà totalizzante e la figlia lo considererà un dio, lo adorerà a tal punto da non poterlo tradire mai con un altro uomo.

Madre-padre-figli

Sembra che tra le motivazioni alla reiterata ricerca di partner molto simili tra loro, ci sia l’antica relazione con i genitori, una relazione ancora non risolta e legata a un cordone ombelicale mai spezzato.

Il momento dell’innamoramento comporta comunque una regressione che può essere spinta da una ferita che chiede di essere risanata, il desiderio di ritrovare nell’altro il genitore onnipotente, il desiderio di riconquistarsi quel posto che non è mai stato riconosciuto durante l’infanzia.

Tale regressione può avere una forma benigna, che porta al risanamento della ferita originaria e consente di vedere il partner nei suoi aspetti reali e non idealizzati; può avere altresì una forma difensiva che porterà la persona a rappresentare l’altro come un meccanismo di difesa (illusioni d’amore) (Baldaro Verde, 1992).

Tendenza alla ripetizione

Ripetere per imparare, sbagliare per conoscere, conoscere per possedere e possedere per trasformare è forse un qualcosa che ci appartiene sin dalla nascita, un qualcosa che ci muove da dentro per portarci in direzione del nostro Progetto di vita.

Forse la tendenza a rivivere infinite volte la stessa storia può essere una buona occasione di crescita, un modo per riuscire a fare un salto evolutivo verso il superamento di quelle difese che portano a vivere invischiati con le nostre ferite.

La ferita primaria spesso dirige e guida le nostre scelte. La minaccia della non esistenza è talmente straziante e presente che l’uomo cerca di legarsi indissolubilmente a quegli schemi che nel passato hanno salvato la propria sopravvivenza.

Sembra ci siano nell’uomo due tendenze, una guidata dall’inconscio inferiore e l’altra dall’inconscio superiore. La prima cerca di rivivere certe esperienze per riconfermare le erronee credenze del passato, mentre la seconda ripropone le stesse esperienze avendo come finalità l’evoluzione della persona.

L’uomo il cui centro dimora nell’inconscio inferiore, vivrà la sua vita e le sue scelte sotto la costante minaccia del senso di colpa, mentre l’uomo che pone il proprio centro nell’inconscio superiore vivrà sotto la minaccia dell’idealizzazione.

Fondamentale sarebbe riportare l’Io al centro dell’ovoide, tra inconscio inferiore e inconscio superiore in modo che il senso di colpa e l’idealizzazione si trasformino in responsabilità e senso di realtà. Dal “vero” centro l’uomo non si sente minacciato, ma può attraverso la volontà operare le giuste scelte e interrompere i circoli viziosi che troppo spesso condizionano l’esistenza.

Identificati con l’inconscio non è possibile vedere il progetto che il Sé ha su di noi. Tendiamo a rispondere alla vita in modo coattivo lasciando ad altri la scelta attiva della nostra vita. Siamo portati a confermare le nostre ferite, i rifiuti e le umiliazioni che abbiamo ricevuto, perché questo ci dà un’identità certa anche se dolorosa ed è sicuramente meglio avere un’identità che non esistere.

L’inconscio inferiore spingerà costantemente verso la conferma delle antiche ferite, sarà costantemente sfidato dalla vita che riproporrà più volte gli stessi temi nell’attesa di un salto evolutivo, ma nella maggior parte dei casi riuscirà a far sentire forte la sua voce e a colpire l’antico dolore.

Come descritto in precedenza il bambino diventa presto vittima della famiglia scarsamente empatica o bisognosa ed è costretto ad assumere un’identità di sopravvivenza per non soccombere al rifiuto dell’amore incondizionato; si allontana così dal suo vero Sé e per difendere questa fittizia identità cerca ogni giorno di riconfermare quello che si è artificialmente costruito, ovvero le sue difese, i suoi fallimenti, le sue difficoltà.

Disidentificarsi dal falso sé nasconde la minaccia del non essere ed è quindi molto difficile e pauroso; è però il primo passo verso la liberazione dai complessi e dalle catene che costringono le nostre vite e ci dirigono verso la non accettazione di noi stessi.

Occorre conoscere la causa della ferita anche se è sicuramente un evento molto doloroso, può portare rabbia verso coloro che hanno causato tale ferita e può facilmente far identificare la persona con il suo ruolo di vittima. È importante che l’individuo riconosca ciò che non gli è stato dato durante la sua vita, ma è altrettanto utile che si disidentifichi dal sentirsi vittima. Questo perché identificarsi con la vittima significa allontanarsi dalle proprie responsabilità, ostruisce la possibilità di prendere in mano la propria vita e conduce verso la rassegnazione.

Guardare l’essere vittima dall’alto è spostarsi dall’invischiamento dell’inconscio inferiore verso l’inconscio medio da cui è possibile fare delle scelte consapevoli di trasformazione e riallinearci con il nostro Sé.

Stesso dicasi di tutti quei processi coattivi che dominano la nostra vita; l’invischiamento con essi porta al perdurare di situazioni sempre uguali nel tempo a cui rispondiamo in maniera sempre simile, mettendo in atto un sempiterno circolo vizioso.

Accorgersi di questo meccanismo è il primo passo importante verso l’interruzione dello stesso; osservando ciò che accade possiamo notare che spesso è proprio la voce delle antiche ferite che modificano gli eventi per ricondurli verso lo schema vizioso. Può capitare ad esempio che una nuova relazione, dissimile da tutte le altre e molto appagante, possa ad un certo punto interrompersi perché la persona può non riconoscersi nell’essere amato, e cerchi di riconfermare l’antico rifiuto o abbandono, provocando nell’altro la reazione che confermerà le sue paure.

Una volta ascoltate le voci dell’inconscio è possibile disidentificarsene, accettarle e accoglierle, trattarle con amore come fossero bambini bisognosi, sintonizzandosi però su altri aspetti più maturi, che possano riconoscere in noi la forza e la capacità di interrompere la catena e riallinearci al nostro Sé, al nostro progetto e alle nostre potenzialità, che pur presenti nella nostra quotidianità non potevano essere ascoltate.

Bibliografia

Assagioli, R. (1965). Principi e metodi della psicosintesi terapeutica. Roma: Astrolabio Ed.

Baldaro Verde, J. (1992). Illusioni d’amore. Milano: Raffaello Cortina Ed.

Bettelheim, B. (1978). Il mondo incantato. Milano: Feltrinelli Ed.

Firman J., Gila A. (2009). La ferita primaria. Firenze: L’UOMO edizioni

Freud, S. (1920). Al di là del principio del piacere. it. Milano: Mondadori (2003)

Maslow, A.H. (1954). Motivazione e personalità. it. Roma: Armando ed. (1973)